lunedì 28 dicembre 2015

Dannati Forever



Sono convintissimo che l'inferno sia tappezzato di televisori in full-HD che trasmettono 24/7 la diretta del paradiso commentata da una versione angelica di Enrico Mentana.
La vera disperazione che si assaggia all'inferno non dipende dalle fiamme o dai diavoli che ti inforcano le pubenda con prodotti dello Chef Tony, ma dal fatto che tu vedi come la gioia, l'amore e la pienezza siano davvero possibili. Stanno capitando da qualche parte. Questo sul piano teorico: per te, anima dannata, sono precluse eternamente. Non provi nemmeno invidia per i martiri che osservi spaparanzati sulla Jacuzzi a sorseggiare Martini, tanto sai che se ti trovi lì, accanto a rapinatori morti male, serial killer e parlamentari della prima repubblica la colpa è solo tua. Ogni tanto qualche diavolo si sollazza con scherzoni da quarta elementare: cambia il cartello dello stanzone in cui ti ritrovi con l'insegna "Purgatorio", alimentando così false speranze tra i morti più "freschi". Pure Licio Gelli c'è cascato l'altro ieri e ha già intentato una causa legale nei confronti del ragionier Mefisto.
Non hai nemmeno la soddisfazione di mandare a quel paese il toscano vestito di rosso che passa ogni tanto, accompagnato dall'amico poeta zombie, perché se no ti sbugiarda nella Divina Commedia. Con gli ascolti che fa Benigni meglio non rischiare figure da pirla su Rai1.
Questo succede sovente pure a chi è ancora in vita. E tra i viventi, c'è chi risponde a questi "piccoli inferni" con le droghe sintetiche, chi sabotando i fantacalci altrui, chi scrivendo inutili status su Facebook.


"Intorno al Ring" - una non recensione


Ho divorato in questi due giorni “Intorno al Ring”, un dono che Babbo Natale che risponde al nome di mio fratello mi ha fatto a corredo della t-shirt originale di Daniel Bryan. “Intorno al Ring” è un’inusuale quanto scorrevole autobiografia wrestlingara di Michele Posa e Luca Franchini, le “voci” ufficiale del wrestling in Italia.
Mi aspettavo di conoscere più da vicino i due “ex-ciccioni” che da più di dieci anni rappresentano la mia disciplina preferita. E invece tra le righe, tra le note a margine, c’era scritto anche di me.
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Era il mese di settembre 1999.
Per l’anagrafe avrei compiuto 14 anni solo il mese successivo, eppure la mia vita era già cambiata completamente. Addio scuola media del paese, addio ai compagni di classe conosciuti all’asilo. Ora giocavo la mia partita tra i banchi del liceo più prestigioso di Padova, dove avevano studiato Elisabetta Gardini e Giorgio Napolitano, il pilota Patrese e i rampolli dell’alta borghesia patavina. Il timore di non essere all’altezza delle declinazioni del greco ma ancor di più di essere considerato alla pari con i figli di notai e industriali, mi avevano spinto ancor di più a rifugiarmi nel mondo magico del teleschermo, tra reality incipienti, supersayan e majokko varie.
Fu in quel mese che il sabato pomeriggio, dopo Card Captor Sakura e le nuove puntate di Holly e Benji – con Shingo Aoi che tentava la fortuna all’Inter grazie al falso passaporto di Recoba – arrivò il wrestling.
Ero troppo piccolo – o troppo poco nottambulo – per ricordare le grandi sfide dell’era gimmick commentate da Dan Peterson. Nei mesi precedenti avevo scorto qualcosa di Raw dalle immagini criptate in stile Tele + del canale per i militari americani. Impazzivo per Celebrity Death Match, per la lotta olimpica, per le “botte”, come tutti i 13enni sani di mente.
Ma ricordo distintamente l’impatto quasi stendhaliano di fronte alla WCW del 1999. Adoravo il mid-card dei pesi cruiser, i loro voli, Rey Mysterio senza maschera, la grazia di Eddie e Chavo Guerrero, la netta distinzione tra bene e male in Juventud Guerrera, La Parka e Psychosis. E poi i colossi: il carisma di Sting, la devastazione di Goldberg, la specchiata bontà di Kevin Nash (erano mesi da face per lui), il quoziente intellettivo di Sid Vicious.
Potrei stare qui ore a dire quanto sia legato a quel wrestling (che in realtà ho visto davvero poco, specie se paragonato alle centinaia di ore di WWE fagocitate nei 15 anni successivi), quanto abbia padroneggiato WCW Mayhem alla Playstation 1, quanto alla fine i pochi mesi da mark puro fossero belli…
Ma vi annoierei a morte. Il wrestling – come ogni nostro hobby, passione o interesse – non è il wrestling (scusa Max Landis). Ma il nostro rapporto con esso. È ciò che ci è piaciuto e ciò che non ci è piaciuto. Sono le pazzie che abbiamo fatto per esso. Sono le ore passate nei forum o di persona a fantasticare scelte di booking, a creare trame, a saltare sul divano per i bump. È ricordarsi il giorno in cui è morto Eddie Guerrero, o quando quella notte, in diretta su Sky, avevi condiviso con Posa e Franchini la preoccupazione nel vedere presentarsi a Vengeance per il vacante titolo ECW CM Punk al posto di Chris Benoit.
In fondo, è come se il tempo si fosse fermato. Quando scrivo un articolo, convoco una conferenza stampa o posto su Facebook qualcosa a nome di tale ufficio o tale azienda posso dire di avere 30 anni. E posso dire di sentirne tutto il peso.
Ma quando vedo l’ironman match tra Sasha e Bayley, gufo Roman Reigns o prego la Madonna di Czestochowa per assistere a John Cena che turna heel pestando pure i bambini di “Make a Wish”, se mi guardo allo specchio ho di nuovo 13 anni. Sul tavolo ci sono ancora le versioni di greco da tradurre e al telegiornale ci si lamenta del governo Amato responsabile del Millennium Bug.
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Posa e Franchini alla fine sono come noi. Sono noi.
Che li amiate o che li odiate, se nell’iperuranio platonico esistesse uno scaffale dedicato alle passioni, “l’amore per il wrestling” avrebbe il faccione di Posa e Franchini, come un Giano bifronte. “Intorno al ring” è una canzone d’amore che il Bardo e il Godzilla intonano nei confronti di questa disciplina così incomprensibile, che mescola le arti marziali alle tragedie di Euripide.
Ma non è uno spettacolo: quello che Posa e Franchini raccontano è uno scenario in cui noi – tutti noi fanatici – abbiamo un ruolo da protagonisti. È come se ci fossimo anche noi quando Fabio Guadagni chiama Kiniluca e il Bardo per realizzare un sogno. Ci siamo anche noi quando i divi prima visti da lontano dopo dieci ore di macchina diretti in Germania ora sono atleti che si mettono in coda per farti intervistare da te. Quando il desiderio di una vita – quello di commentare una Wrestlemania a bordo ring – diventa semplice normalità.
“Intorno al ring” non è un libro di wrestling. È la storia di un sogno che si realizza, una storia che i fan di wrestling non possono non conoscere. Sarà un po’ conoscere sé stessi.

domenica 20 settembre 2015

Ferite


Per stare male non ho bisogno di vedere i filmati degli “scherzi” con cui qualche bullo ha ucciso – moralmente e materialmente – Andrea Natali, il giovane che si è tolto la vita a 26 anni impiccandosi in camera sua.
Mi basta questa foto. Il dolore della mamma, col volto composto della casalinga che l’ha cresciuto preparandogli da mangiare e rimboccandogli le coperte da piccolo. Il dolore del papà, questo artigiano che si domanda, tenendo con la mano grossa grossa come una reliquia sacra l’immagine del figlio, se le cose sarebbero potute andare diversamente. Se solo Andrea avesse incontrato altre persone lungo il suo cammino.
Questa foto mi angoscia terribilmente perché in questa mamma e in questo papà mi pare di rivedere i miei genitori. Per certi aspetti ci assomigliano anche un po’.
E provo a immaginare se oggi, invece che su “La Stampa”, questa foto fosse stata pubblicata sul “Mattino”. Ma con i miei genitori. E con una mia foto tra le mani.
Questa immagine, e la notizia che l’accompagna, mi fa ricordare come anch’io, alle medie, sia stato vittima di bullismo. “Lo siamo stati tutti”, penserete. Forse è vero. E ripensandoci si è trattato probabilmente di poca roba da pesare nella bilancia che è la vita. Anche io ero “particolare”, un tipo un po’ intrattabile, in quegli anni di benessere economico che ricordiamo come la fine anni ’90.
Ma quando il bulletto ti chiama ripetutamente “merda umana” e nessuno della tua classe dice nulla per difenderti, quando i professori osservano le ritualità del branco senza proferire parola, annoiati e stanchi, quando in tre anni sei l’unico della classe a beccarti una sospensione perché al termine di una mattinata di continue prese in giro batti il piede per terra e il bulletto fa finta di essere stato colpito… E tante, tante altre situazioni… Una cicatrice ti resta. Anche quando puoi rimani in “buoni” rapporti con quelle stesse persone. Perché poi si cresce e si mette la testa a posto.
Ma intanto, quando hai 13 anni, pensi che sei tu quello sbagliato. Totalmente sbagliato. Che è meglio stare da soli per evitare grane. Che tanto la tua presenza è inutile e che sono loro, i “bulletti”, quelli che hanno capito tutto della vita. E allora ti isoli davvero. E resti solo. Coltivi il tuo microcosmo. E quando arrivano gli amici, quelli veri, e ormai hai oltre vent’anni, le cose iniziamo a sistemarsi. Ma sai di esserti perso molto nel frattempo, a partire dai compagni di classe delle superiori dei quali non hai mai coltivato amicizie davvero profonde perché ancora troppo “scottato” dai coetanei delle medie. Sai che quelle cicatrici – forse non le uniche – resteranno. E condizioneranno ancora a lungo quello che sei. Anche se in sostanza quello che è capitato a te è un centesimo di quello che è capitato, in età adulta, al povero Andrea di Vercelli.
Se scrivo queste righe non è per denunciare ingiustizie ormai cadute in prescrizione, né per chiedere a chi fa il nobile lavoro di professore, o veglia sui luoghi di lavoro o nei più disparati contesti sociali, dagli allenatori agli animatori, di impedire che certi “scherzetti” innocenti si tramutino – come al loro solito – in ferite che non guariscono più. Specie ora che ci sono gli smartphone.
È che questa foto, in questa mezzanotte di venerdì sera, mi fa un male cane e non so spiegarmi il perché. Ma forse è perché rappresenta l’impotenza di chi ti vuole bene di fronte a un mondo che non vede l’ora di sbranarti, senza un valido motivo, per giunta.

mercoledì 26 agosto 2015

Il capo dei profughi



Risalire il fiume Karatal. Lasciarsi finalmente alle spalle i campi profughi del Kazakistan, dove milioni di europei respiravano la gomma bruciata dei copertoni delle auto e si congelavano di notte nella tundra come le piantine, solo che loro, la mattina, non si risvegliavano più. Era questa prospettiva, per quanto irrealizzabile, l’unica cosa che li teneva ancora in vita.

Per la quarta volta in un mese il tenente Cheng aveva accettato di vedere il “vecchio”, il carismatico capo dei disperati che con il suo fare suadente rappresentava in tutto per tutto il campo profughi di Karatal. Alto, sproporzionato e dal fare perennemente marziale Cheng aveva passato gli anni ’20 a ripulire la Corea del Sud dai ribelli e per questo era stato premiato dalla Repubblica Popolare con un incarico ben remunerato e di poco conto prima della meritata pensione. Ma il tenente non si era posato sugli allori, anzi. Sebbene avesse a che fare ormai solo con qualche migliaio di profughi anziani e malati, dimostrava un attaccamento se possibile ancora maggiore alla bandiera e alle regole.

Bambini non ce n’erano più. Le radiazioni avevano ucciso metà delle donne in età fertile e aveva reso sterili tutte le altre. I pochi bimbi bianchi al mondo dormivano sicuri tra l’America e l’Australia.

«Che vuoi ancora?». Cheng squadrò il vecchio con disprezzo. Alla prima convocazione, Cheng si era subito presentato nella sua tenda per evitare che le teste più calde facessero qualcosa di cui si sarebbero pentiti. Dagli anni in Corea aveva imparato che è meglio spegnere i fuochi appena si accendono piuttosto che usare le pallottole.

«Che voglio ancora?», trasalì il vecchio. «Voglio ciò che è giusto. Per tutti noi. Siamo vecchi, siamo stanchi. È sette anni che moriamo qui dentro, non ce riusciremo a passare incolumi un altro inverno. Siamo arrivati in ottantamila, ormai siamo poco più di trentamila».

«Sai che non si può». Cheng rimase in piedi, all’entrata della yurta, come a ribadire che la sua presenza sarebbe durata solo pochi minuti. «Ti ho già detto che il mese prossimo arriverà il carbone».
«Il carbone?». Il vecchio rise, mentre con la mano si arricciava la lunga barba. Una risata che era anche un pianto. «Il carbone. Lo sai che il primo inverno sono morti ventimila di noi per il carbone. I fumi delle stufe hanno mandato al Creatore praticamente tutti i francesi. Coi polmoni che si ritrovavano dopo la merda che hanno respirato nel ’19 c’era da aspettarselo. Anzi, lo sapevate. La realtà è che ci volete tutti morti e non avendo le palle per farci fuori aspettate che sia la natura a farlo».

Cheng rimase impossibile. Era come se non avesse sentito. Sapeva benissimo che il vecchio gli avrebbe ripetuto per l’ennesima volta il suo bignamino di storia recente europea, aggiungendo sempre più particolari. Ma era inutile.

«Non so dov’eri tu nel giugno del ’18. Ma io me lo ricordo. Le bombe nelle capitali, le armi chimiche… Una popolazione che non conosceva la guerra da 80 anni praticamente sterminata nel giro di pochi mesi. Roma che bruciava e Londra che affondava nei crateri. Io lo ricordo».

Anche Cheng se lo ricordava benissimo. Nel ’18 aveva venticinque anni ed era tra i soldati adibiti all’accoglienza dei primi profughi spagnoli che arrivavano sulle navi da crociera ad Hong Kong. Nessuno poteva immaginare che quelle fossero le prime avvisaglie della fine dell’Europa. 

«Poi venne il ’19 – il vecchio con la barba e gli occhi castani continuava imperterrito la sua lezione – 150 milioni di morti per le atomiche di Parigi e Marsiglia. Voi non avete mosso un dito. Nessuno è venuto ad aiutarci negli anni successivi. Se non fossimo partiti saremmo tutti morti». Con l’ISIS in pieno controllo dell’Africa, la salvezza si biforcava tra Ovest ed Est. L’Atlantico o gli Urali. Loro avevano scelto gli Urali.

«Siamo ormai solo trentamila. Cosa sono trentamila per due miliardi di cinesi?».
Fu allora che Cheng rispose: «Trentamila europei qui. Ce ne sono 120 mila nel campo a 80 chilometri a sud da voi e altri 70 mila a nord. E di campi ce ne sono a decine. Nel nostro paese voi bianchi siete già 40 milioni, gran parte dei quali disoccupati o sotto occupati. E ci dobbiamo già prendere cura di chi si ammala e muore. Credimi, siete già in tanti. I miei compatrioti non ne possono più. Alle ultime elezioni sono stati chiarissimi».

Il vecchio sospirò. Ormai era la guida di quello strano gregge da quasi dieci anni. Gli italiani ai tempi dei campi in Uzbekistan lo avevano scelto come loro leader. I tedeschi prima e i francesi poi avevano confermato la fiducia in lui, quest’affascinante oratore che a furia di proteste, lotte e minacce aveva sempre garantito che tutti avessero un pezzo di pane e un tronco di legno da bruciare. Ma adesso era vecchio e stanco, e la sua mente ormai logorata dagli anni lo portava a battere senza successo le nocche rugose sulle pareti della stessa inamovibile porta.

«Ti prego Cheng. Portaci almeno a sud, non supereremo l’inverno». Il tenente lo squadrò ancora. E fu allora che una crepa andò a scalfire di qualche millimetro la sua granitica fedeltà ai piani di Pechino. A quello che sarebbe dovuto succedere.

«L’anno prossimo». Si lasciò sfuggire.

«L’anno prossimo?». Urlò il vecchio. «L’anno prossimo? Sai quanti saremo l’anno prossimo? Se ci va bene – ripeto, se ci va bene, se non ci sarà alcuna epidemia resteremo in meno di ventimila». D’un tratto il vecchio leader dei profughi del campo di Karatal alzò gli occhi. «È quello che volete – parlava calmo, rassegnato, disgustato ma sereno – è quello che avete sempre voluto».

Cheng si voltò verso l’esterno della Yurta. Davanti alla porticina di un prefabbricato cadente un uomo di circa trent’anni si scaldava di fronte al fuocherello di un barile. Era biondo, ma la fuliggine che usciva dal rogo aveva già ricoperto i suoi capelli di cenere. Pareva non gli importasse più di niente. Tremava. Da tempo Cheng si domandava cosa ne sarebbe stato di lui se quei quattro folli vestiti di nero avessero fatto scoppiare le loro bombe a Pechino o Shangai, avvelenando l’aria e rendendo la vita impossibile per tre millenni anche nel paesello dov’era nato nel 1993. Forse sarebbe stato lui, in quell’istante, a chiedere pietà di fronte all’autorità militare e di fronte a un’opinione pubblica straniera. Sarebbe stato lui il leader sindacale dei morti che camminano. Ma non poteva fare altrimenti. Di fronte aveva la Storia. Lui era solo una pedina. Erano tutti una pedina. Guardò il vecchio, per la prima volta, in sette anni, come un essere umano e non come un rompicoglioni straniero.

«Mi dispiace Matteo». E se ne andò, scortato, verso la sua auto. La radio era accesa. Tra le notizie, il primo ministro, intervenuto per un discorso alla città di Nyangan, urlava di fronte a una folla festante che non ci sarebbero stati nuovi ingressi e che tutte le politiche per l’occupazione sarebbero state rivolte esclusivamente «ai cinesi di almeno due generazioni».

“Vox populi, vox Dei”, si autoassolse Cheng, mentre l’auto d’ordinanza sfrecciava nella desolata tundra kazaka che odorava di morte.

martedì 25 agosto 2015

Caro bimbo del 1992 (dopo una settimana in Sicilia)

Quando sei un bambino tra i sei e i sette anni la tua mente è una spugna. Ogni cosa che vedi, che leggi o che ascolti resterà impressa per sempre nella tua testolina esattamente nel modo con il quale ti è stata presentata. Non importa se ti dimenticherai il giorno o la circostanza di ogni nuova scoperta, ma le associazioni che farai resteranno sempre.

Il Milan del quale tuo papà ti compra sempre i poster nella vana speranza di vederti un giorno milanista sarà sempre la squadra di quel nero coi capelli ricci e col faccione simpatico, la moltiplicazione è quell’operazione matematica che imita – come ti ha insegnato la maestra Anna Andolina – Gesù con i suoi pani ed i suoi pesci, le tartarughe, anche quelle piccole che puzzano, sono tutte potenzialmente dei guerrieri ninja con i nomi degli artisti rinascimentali. Anche quando hai quasi 30 anni, sei juventino e la matematica ti serve solo per calcolare l’Irpef  una piccola parte di te è ancora in prima elementare. In fondo in fondo, resti sempre un bambino del 1992.

Caro bambino del 1992... è a te che scrivo dopo questi sette giorni in Sicilia.

Ma per te la Sicilia non è la meta del campo diocesano di Ac a cui hai voluto partecipare, ma è ancora quell’isola assolata di cui parlano tanto in televisione. È ancora quella terra bruciata dal sole dove si spara sempre e dove le bombe fanno esplodere signori con i baffi. Con gli anni, caro bimbo del 1992, assocerai alla Sicilia tante altre cose: Franco e Ciccio, Nibali, Mattarella. Ma non c’è bambino del 1992 nel cui immaginario non rimbombi ancora il tritolo di Capaci e quello di via d’Amelio.

Caro bimbo del 1992, ho voluto portarti al Sud, più a Sud di quanto non eri mai stato. Ti ho portato a toccare con mano la pietra arenaria che dà forma alle case popolari e ad assaggiare il ripieno delle arancine. Ti ho messo lì, con i suoi occhiali storti, perché vedessi quanto è stretto lo stretto di Messina e quanto nere sono le ceneri dell’Etna.

Il camposcuola dal titolo “Giovani, Lavoro e Vangelo” ti voleva immergere nel Progetto Policoro, un progetto della Cei per creare lavoro dove spesso si è cercato solo un “posto” per arrivare alla fine del mese. E ti sei sorpreso, caro bambino del 1992, nel vedere come la Sicilia del tritolo, ancora con quel sole che picchiando forte annulla ogni colore, ospiti così tanta ricchezza. Giovani che combattono per la legalità, ragazzi e ragazze che dopo una vita nei patronati con gli scout e l’Azione Cattolica non solo non hanno chiuso in un cassetto tutto quello che hanno imparato, ma lo usano come attrezzo di lavoro per costruire un pezzettino di futuro nel loro territorio. Imprese turistiche, campetti di calcetto, parchi avventura, copisterie, alimentari, cooperative sociali, negozi di fumetti che hanno come business plan quel libretto scritto 2000 anni fa e che ha cambiato il mondo. L’energia e la vitalità che hai respirato ti saranno utili, caro bimbo del 1992, nei prossimi mesi, per quelle due o tre ideuzze che ti girano in testa.

Ora che sei tornato a casa, caro bimbo del 1992, forse ti sentirai un po’ vecchio se messo a confronto con i tanti bimbi del 1999 e persino del 2002 con cui hai condiviso questa frazione di cammino. E forse ti chiederai – sulla scia del tema del campo che hai appena vissuto – se non sia il caso di “contemplare” un po’ di più anche il frutto di tanto tuo lavoro, che non si limita più ai temi in stampatello sui dinosauri, ma che è fatto di campagne adwords, articoli di giornale e trasmissioni radiofoniche: insomma, le porcherie degli adulti ai tempi delle reti digitali. E forse – addirittura – ti chiederai se per inerzia o accidia non hai davvero in questi giorni detto quei “grazie” che il cuore avrebbe voluto dire, troppo impegnato a cercare perfezioni ultraterrene.

Caro bambino del 1992, prima di lasciarti andare a nanna, vorrei convincerti dall’alto dei miei quasi 30 anni che il mondo è davvero un posto magnifico, che i sogni si possono realizzare, che dove scoppiavano le bombe ora crescono i limoni e i bambini come te possono mangiare tutti i cannoli che vogliono. Sarà la stanchezza, sarà il lungo viaggio, eppure, caro bambino del 1992, sai che ti dico? Forse mi sto convincendo un po’ pure io. 

mercoledì 15 luglio 2015

Oskar Groening

Lui è Oskar Groening. Ha 94 anni. Oggi è stato condannato a quattro anni di carcere per aver lavorato ad Auschwitz come contabile.
Oskar, giovane ragioniere e convinto nazista, arrivò ad Auschwitz nel 1942. Devastato dall'orrore a cui assistiva, chiese per ben tre volte di essere mandato al fronte, in prima linea, per scappare a quella fabbrica di morte. Fu accontentato la terza volta, nel 1944.
Non si nascose, Oskar. Dopo la guerra e dopo la prigionia in Inghilterra, lavorò una vita in una fabbrica di vetro, dato che il suo passato da SS gli impediva di tornare al suo impiego in banca. Negli ultimi anni per contrastare le balle negazionisti ha rilasciato decine di interviste. Ha scritto le sue memorie. Ha urlato al mondo che i forni crematori, le stragi, i bambini strappati alle madri e buttati con violenza sui carretti fino a spappolargli il cranio... è tutta roba vera. E' successo tutto. Lui ha visto tutto. Che se lo mettano bene nelle loro teste rasate certi ragazzacci in giro per il mondo.
Oskar avrebbe potuto tacere, ma ha deciso di parlare. Ed è per questo che è stato condannato. Risparmiamogli almeno l'onta dei social network. Oskar non è quel bastardo schifoso di Eric Priebke.
Magari al posto del vecchio Oskar noi saremmo stati zitti. E magari al posto del giovane Oskar saremmo rimasti tranquilli alla nostra scrivania in una fabbrica di morte piuttosto che rischiare la pelle in trincea. No, non siamo meglio di Oskar quando un barcone che affonda ci fa quasi piacere, o invochiamo stermini sproloquiando sulle nostre pagine Facebook.
Teniamo gli occhi bene aperti. Altrimenti i prossimi Oskar saranno i nostri figli.

Il toto-Vescovo

Il toto-Vescovo proprio non mi affascina. E sì che per il toto-Papa e il toto-Presidente mi ero scaldato moltissimo. Ma adesso, più che il toto-Vescovo, mi prende il toto-Chiesa. Che Chiesa di Padova saremo?
Una Chiesa in uscita o una Chiesa arroccata dentro il suo fortino?
Una Chiesa capace di evangelizzare la realtà che la circonda o una Chiesa indebolita dall'esterno?
Una Chiesa dove i giovani siano protagonisti o semplici comparse in costante diminuizione?
Una Chiesa capace di ribadire i suoi valori in modalità nuove o una Chiesa che per paura del secolo sceglie il compromesso?
Una Chiesa che prega o una Chiesa che fa finta di pregare?
Una Chiesa che sceglie la carità come via principale o una Chiesa che confonde la carità per beneficienza?
Una Chiesa che difende la dignità di ogni uomo e donna come figlio e creatura irripetibile di Dio o una Chiesa che se ne dimentica?
Una Chiesa che riconosce la sua unica ragion d'essere nel fatto storico della resurrezione di Gesù Cristo o che la rimuove addirittura?
Già. Perché la Chiesa siamo noi. Dal Vescovo al laico che si presenta solo a Natale e a Pasqua e si siede rigorosamente in ultima fila. Tutti sulla stessa barca. Tutti al timone. Ognuno gioca la sua parte ed ogni parte è fondamentale.
Aspetto le quote dei bookmakers e poi farò la mia scommessa.
2 euro me li gioco.

domenica 5 luglio 2015

Se il sale perde il suo sapore...

L'ISIS avanza nell'Africa del Nord distruggendo il legame tra Dio e l'uomo.
Milioni di disperati, privati della loro terra dall'avanzata del deserto e dal land grabbing delle multinazionali, fuggono in cerca di speranza. 
Le nuove generazioni nei paesi "ricchi" crescono disilluse, individualiste, prive di fiducia in sé stessi e nel "bene che c'è tra noi".
Intanto, l'economia dei numeri distrugge "la dignità delle persone".
Il pianeta, la "nostra casa comune", va a fuoco.
Le narrazioni razziste dopo 70 anni tornano a risuonare in Europa sulla bocca di uomini di potere. Famiglia e società sono scardinate dalle fondamenta.
Ah. Quanto sarebbe bello che i "giovani cattolici" facessero sentire la loro voce su tutto questo, che ne so, magari annunciando la vittoria della Vita su ogni morte, annunciando quel Cristo che - forse - hanno conosciuto.
Ma il sale della terra ha perso il suo sapore e si è mescolato alla pasta informe. O forse bisogna solo risvegliarne le qualità.

mercoledì 17 giugno 2015

Auguri

auguri
Auguri
I tasti di un joystick della Playstation sono 14. A questi si aggiungono due levette. 16 dispotivi di "input" in totale.
Immaginate di prendere ogni tasto e levetta e di separarli in 16 dispositivi diversi, tutti collegati alla stessa Playstation.
Buttateci dentro il disco di Tomb Raider, chiamate 16 malcapitati che disgraziatamente insistono nell'essere vostri amici, affidate un controller a ciascuno e ditegli: "Giocate". Povera Lara Croft. Cadrà nel primo dirupo, verrà divorata dalle bestie feroci e sarà continuamente sansebastianizzata dai proiettili.
Vi sembra un'assurdità?
Beh, non lo è. Questo è lo stesso modo con cui nell'Unione Europea si sta cercando di risolvere la crisi greca, la questione delle frontiere, i disastri ambientali.
Finché un essere umano di sani principi non si deciderà a collegare alla Playstation un joystick normale (una politica comune vera - gli Stati Uniti d'Europa)... auguri!

sabato 6 giugno 2015

Il linguaggio della resa


Ve lo dico fuori dai denti. Schietto, senza troppi giri di parole. Del resto, penso che sia il modo migliore per rendere giustizia alle vostre parole, tanto coraggiose quanto poco oculate.

No. Cari autori della famosa lettera: non è stata per niente una buona trovata. Non farà del bene né al dialogo né alla Chiesa di Padova. 

Lo so, lo so. Siete giovanissimi, avete dai 22 ai 23 anni: dal vecchiume dei miei 29 anni avrei potuto incontrarvi in qualità di animatore a qualche grest o gruppo di Ac. Tutti vi dichiarate impegnati nelle parrocchie e nei vicariati, tutti vi sentite guidati da una causa nobile. E la realtà che vi circonda ve lo dimostra giorno per giorno: sentite i fremiti un mondo in continua fermentazione, dove tutto cambia e dove soprattutto tutto sembra debba cambiare. Dall’altra, però, passate tanto del vostro tempo – e per questo vi ringrazio – dentro una Chiesa che, nonostante le accelerazioni che sta imprimendo papa Francesco, sembra ancorata al passato. 

Sono in gioco due partite. La prima è quella dei diritti: la possibilità, cioè, di permettere a delle persone che hanno contratto un legame affettivo di poter godere di certe agevolazioni e peculiarità, ben sintetizzate dal classico esempio della visita in ospedale. La seconda partita, apparentemente, è una diretta derivazione della prima. In realtà, la trascende completamente. È quella del riconoscimento sociale. L’estensione automatica del concetto stesso di famiglia e di matrimonio a tutti e a tutto. Nella vostra lettera l’opinione pubblica sembra più importante dell’accoglienza delle persone omosessuali (che già c’è, se non lo sapeste). 

Questo non è assolutamente un tema “cattolico”. Perché il matrimonio è un sacramento da soli duemila anni: per tempi decisamente più lunghi questo istituto naturale è stato il tassello fondante della società umana. Di ogni società umana. La vostra lettera, tra le tante contraddizioni, tradisce l’equivoco che da una parte (la Chiesa, i politici asserviti, i “vecchi”) si stia “fermi”, dall’altra invece brilli il sol dell’Avvenire di un futuro dove addirittura, grazie a un «graduale e ragionato riformismo sulle unioni civili», si potrà addirittura «sospendere la riflessione su quei punti che destano maggiori perplessità, quali l’adozione ai minori». 

Da “operaio” della comunicazione mi sento di dirvi che la vostra lettera, forse un po’ troppo impulsiva, è un autogoal clamoroso anche in termini di comunicazione. Voi state parlando di diritti. Il dibattito pubblico, i media, la maggioranza vorace dei social ha già capito tutt’altro. Pensa che voi vi stiate riferendo direttamente al riconoscimento pubblico. Avete cercato di mostrare uno squarcio all’interno del tessuto ecclesiale ricollegandolo proprio al concetto di “attivi in diverse realtà della Diocesi di Padova” come se potesse scusare tutto il resto. C’è stato un confronto interno per far nascere questo documento, magari dentro le associazioni o i gruppi, oppure avete “fatto tuonare i cannoni” cercando solo qualche firma in più? 

Chiedete ai media di smetterla di «dare l’immagine di una Chiesa arroccata su una posizione immobile su questi temi». Anzi, addirittura pretendete la par condicio domandando ai media di smettere di dare spazio «solo a quelle voci che, pur legittimamente, esprimono posizioni contrarie ai diritti civili per gli omosessuali pretendendo però che queste appartengano a tutti i cattolici». Piccola notizia: non si decide che cosa è cattolico o no. 

Ci siete cascati con tutte e due le scarpe, ragazzi. E mi fa male vedere i nomi di tanti amici tra coloro che hanno firmato queste tesi, il cui unico scopo sembra essere quello della ricerca di visibilità in giorni “delicati” per la vita della Chiesa di Padova. Il tema o lo si affronta tutto insieme o non lo si affronta. Altrimenti tutto si riduce a una chiacchiera da bar, senza la consolazione di una buona birra media a fare da contorno. 

Non vedo alcun accenno – per dimenticanza o semplice ignoranza, dato che i media non ne parlano – sul tema dell’educazione: già, perché, tra pochi anni negli asili sarà “omofobo” far giocare i bimbi con le macchinine e le bimbe con le bambole. Niente sul tema dell’utero in affitto: sempre più coppie, etero o gay (tra cui un senatore della Repubblica e il suo compagno) ricorrono a “mamme incubatrici” – spesso povere giovani del terzo mondo – per portare a termine le loro gravidanze. Una sorta di supermarket del bimbo che non impensierisce affatto le femministe ma che anzi fa gridare al “miracolo della vita”. Lo sapevate? Non avete poi scritto niente sul valore positivo della famiglia, sempre più messa in difficoltà da precarietà economiche ed esistenziali, per la quale i famosi politici che dovrebbero dimostrare “la purezza della loro cattolicità” non fanno nulla. (P.S. Da quando, per noi cattolici, la cattolicità è qualcosa di brutto?). 

Mi direte che non vi siete espressi su questi temi, perché per voi, su questi, la Chiesa ha ragione. No: vi siete già espressi, e pure in modo eloquente, perché anche il silenzio parla. Specie in questi contesti. 

Carissimi ragazzi, vi sento decisi, volenterosi, siete sicuri su tutto, e l’energia dei vent’anni certamente aiuta. Sarebbe bello confrontarsi davvero, senza le forzature, gli strappi, il venire alla conta, cercando di trovare la forza delle proprie idee nascondendosi dietro una lista di nomi. 

Proprio in questi giorni, in molte zone del mondo c’è chi sceglie l’aderenza a Cristo e al Vangelo fino a pagarne le conseguenze estreme. Se i fedeli non arretrano di fronte alle minacce dell’Isis, perché noi arretriamo di fronte al biasimo dei social media o agli editoriali di qualche ben pensante? In Irlanda, nonostante gli enormi scandali della chiesa locale, la propaganda unidirezionale dei media e il fatto che le adozioni per gli omosessuali fossero di fatto già possibili dallo scorso gennaio per via di una legge del parlamento, il 40% ha ribadito che la famiglia è formata da uomo e donna. A loro non diamo peso? 

C’è da fare una scelta, ragazzi. Resistere o omologarsi. Io la bandiera bianca non la sventolo.

lunedì 1 giugno 2015

"Quanto mi secca avere sempre ragione"

1° dicembre 2014 - 1° giugno 2015.
Come il matematico Ian Malcolm, di fronte al T-Rex che scappa dalla gabbia, si lascia andare a quel "Quanto mi secca avere sempre ragione", pure io, di fronte ai dati del Veneto, mi tocca sbottare in un infantile "Ve l'avevo detto".
Zaia non era più il simbolo della balena bianca berlusconiana, quel blocco moderato che si auto-narrava maggioranza del Paese, ma restava comunque un avversario fortissimo. Il governatore uscente (e rientrante) dà l'immagine di essere il classico veneto "che fa", non ripete troppo le sparate salviniane, tiene un profilo basso e questo alla casalinga di Conegliano o all'artigiano partita Iva di Cavarzere piace moltissimo.
Cos'ha fatto il centrosinistra per esprimere una candidatura, ben sapendo che sarebbe stata un'impresa titanica anche solo sfiorare i numeri di Zaia? Ha pensato bene di sfidare il piano della realtà con il piano delle idee. Non si è fatto rappresentare da un sindaco, da un amministratore locale... che ne so, un Variati, o una Rubinato, una Puppato... E' andato a richiamare a sei mesi da Bruxelles un'eurodeputata che con il sentire Veneto aveva pochissimo a che spartire. Bei discorsi, tanta immagine, poca sostanza, un piglio aggressivo, a tratti "incattivito". Il look perfetto per una sindaca sbarazzina di una città "liberal" emiliana, non proprio quello giusto per guidare la Regione più conservatrice d'Italia. L'intellighenzia ha accettato le primarie solo per demolire sistematicamente l'opposizione interna (Rubinato) con attacchi gratuiti e scriteriati. L'apparato si è esibito in tutto il suo grigiore.
Poi, la campagna elettorale vera e propria. Invece che mettersi al livello dei veneti, il PD ha proseguito nella sua narrazione: una narrazione magari bella, interessante, ma che in pochi hanno ascoltato. I Veneti erano sintonizzati su un'altra frequenza: bastava leggere le bacheche per accorgersene. Si è tentato in extremis di toccare il mantello taumaturgico di Renzi, per attirare l'effetto 40% e fare di queste regionali una ripetizione delle europee 2014. La realtà è che dovevano prendere in considerazione le comunali padovane 2014. Gli stessi identici errori.
Nel frattempo la narrazione continuava: continui post su Facebook dei candidati. La guerra delle preferenze, i commentacci, gli slogan (che a lungo andare si ritorcono contro). L'assoluta sordità e cecità dal primo dei candidati all'ultimo dei volontari.
E così Zaia rivince, stravince. La Moretti riesce a fare peggio persino dell'opaco Bertolussi, che ripetiamo, andò da solo contro la corazzata berlusconiana in uno degli ultimi anni di luna di miele di Berlusconi con l'Italia. E oggi invece prosegue - seppur in tono minore - la luna di miele di Renzi. Il renzismo si può sintetizzare con la formula "antipatia vincente": la Moretti del renzismo ha preso solo l'antipatia.
Questa campagna elettorale è l'ennesima dimostrazione che prima di parlare al popolo bisogna ascoltarlo. Perché ci sarebbe tanto di cui parlare: legalità, sicurezza, ambiente, lavoro, riqualificazione, umanità. Soprattutto umanità.





domenica 29 marzo 2015

Abbiamo portato il Sole.

Poi niente.
Ti tocca alzare bandiera bianca.
Così impegnati in ragionamenti su quello che non va, su cosa si potrebbe fare di meglio, su come il mondo che cambia imponga anche alla cara vecchia Azione Cattolica di cambiare... a volte non ci accorgiamo della bellezza, bellezza vera, bellezza gigantesca e sconvolgente che è questo fare famiglia dentro la Chiesa. Questo sostenerci insieme, nella gioia, nel cammino verso lo stesso Cristo.
Tessere, slogan, metodo, principi. Parole, che qui si fanno vita, sorrisi. Arrendersi di fronte alla luce più abbagliante.
Un pomeriggio per dimenticarsi di tutto, e per capire che forse - ma dico, forse - la bellezza che "illumina" il nostro essere associazione già c'è. Il quadro non va ridipinto. Va semplicemente visto, goduto, ammirato.
Un pomeriggio per stringere mani, dare abbracci, un po' anche per stare male, vedendo quante amicizie e relazioni sono nate negli anni dentro questa famiglia con la consapevolezza che non sempre c'è stato il tempo (e l'energia) per coltivarle come avrebbero meritato.
Tanti i pensieri che vengono fuori, così, alla rinfusa. "E se sorridessimo sempre, come oggi?" "E se ci divertissimo sempre, come oggi?" "E se fossimo sempre, come oggi?". Ma adesso non è il tempo per pensare. E' il tempo per far decantare questa meraviglia. Per farci scaldare da questo Sole che abbiamo portato in Piazza delle Erbe e che ci siamo, poi, portati a casa.

sabato 28 marzo 2015

Il diritto di fare gli scemi

Ne vogliamo parlare seriamente?
Scene di questo tipo ne avrò viste a decine ai miei tempi.
Di fronte alla cronaca che scorre, di fronte a un mondo che ci bombarda di violenze, stragi e attacchi alla dignità dell'uomo, i ragazzini delle medie hanno solo una risposta: il gioco, la presa in giro, la dissimulazione. Ho fatto le medie con la guerra in Kosovo in atto: i caccia americani partivano da pochi chilometri di distanza per bombardare Milosevic e compari. Ricordo battute, ricordo ricostruzioni fantasiose di "cosa facciamo se la guerra arriva da noi"? Non parliamo poi dell'11 settembre, dei canti parodistici da Domenica delle Palme in cui "Osanna Figlio di David" diventa "Osama figlio di...". Nessuno di noi è diventato terrorista, guerrafondaio, militante di qualche forma di estremismo o malato mentale.
I ragazzini delle medie, finché non passano al bullismo, alla sopraffazione, alla cattiveria capace di distruggere l'esistenza ai loro coetanei, hanno il sacrosanto diritto di essere un po' scemi.
Di che stiamo parlando?
Ah sì: ecco di cosa stiamo parlando.
Dei telefonini. Una scenetta ridicola, stupida, ma confinata in una stanzina fatta da due pirla e vista da altri due pirla restava lì. Ora, con un giro di whatsapp raggiunge migliaia di persone. Travalica confini e distrugge reputazioni. Crea "casi di studio" per psicologi, tuttologi e opinionisti.
Alle superiori, in un'ora di educazione fisica, giocavo con altri compagni a squash, prendendo a pallonate un muro esterno del Tito Livio. Erano i tempi del "Caso Scafroglia", con "I Fascisti su Marte" di Guzzanti. Da 16enne scemo qual ero, attorniato da altri tre-quattro 16enni scemi, mi divertivo a fare la "cronaca fascista" di quell'esibizione in perfetto stile Guzzanti. Ricordo solo le risate. Nient'altro. Ci fosse stato uno smartphone, forse, non ne avrei un ricordo così sereno. Anzi, forse, magari con le "giuste" condanne e le "giuste" segnalazioni sarei potuto essere punito o sospeso. Una macchia che - forse - avrebbe potuto condizionare molto in negativo una persona come me.
Il problema dunque non è la "stupidità" insita nel tredicenne. Ma il jpeg che la immortala per sempre, condannando il suo autore a portarsi attaccato in fronte, per lungo tempo, quel singolo atto. Non più "chi sei" ma il "che cosa hai fatto".
Stiamoci attenti. E prima di condannare questi "bomber" prepubescenti, ricordate che cosa avete fatto voi, alle medie.

domenica 15 febbraio 2015

Vi prego, non chiamiamolo più "Festival della Canzone Italiana"



"Ti lascio una canzone" è indubbiamente il più grande obbrobrio della Tv Italiana, peggio dei reality, dei soft-porn, di tutte le boiate che ci hanno propinato in questi vent'anni.
E' un programmino che sa di recita scolastica andata a male, con un tocco morboso tipico di chi fa cantare canzoni amorose ed erotiche a bimbi e bimbe di otto anni. Ebbene, i prodotti di questa cloaca televisiva hanno vinto il Festival di Sanremo.
Ed è un peccato, perché l'edizione targata Carlo Conti non era manco malaccio, soprattutto per i meriti del suo conduttore. In un panorama di buone, se non ottime canzoni, il pezzo de "Il Volo" è un'accozzaglia di esercizio canoro che fonde Claudio Villa ai ritmi sempre uguali del pop latino sudamericano. Parole vuote, che non comunicano il senso della canzone né ci tengono a farlo: "Amoreeee, Amooreeee". E basta.
Il nulla. Se avesse vinto questo Festival Platinette sarei stato cento volte più contento, perché quella di Coruzzi è una canzone. Quella de "Il Volo" è una esibizioncina da karaoke del venerdì sera.
Pensavamo di avere toccato il fondo con Scanu e Carta. E invece no, perché dopo il fondo si può addirittura scavare. E quando scavi il fondo raggiungi l'inferno, dove domina il vero Satana della tv italiana: Antonella Clerici, la tele-massaia simbolo dell'Italia colloquiale priva di ogni benché minima traccia di talento che si crogiola nella sua mediocrità e palese incapacità.
Facciamoci un favore: non chiamiamolo più "Festival della Canzone Italiana". I Vecchioni stanno diventando un'eccezione. Chiamiamolo "Festival dei reality di mediolandia".

sabato 7 febbraio 2015

Vuoto e nulla

Simpatici i dibattiti sulla cosmologia e la cosmogonia.
Ma c'è un grande equivoco di fondo, specie dopo le ultime scoperte, tra vuoto e nulla, che ben si rispecchiano nella nostra vita interiore.
Il nulla è il non essere, che non può essere. Non c'è, non esiste.
Il vuoto, invece, è un'assenza provvisoria, un'assenza che reclama il suo non essere perché vuole essere. E sarà. E fa di tutto perché sia.
Il nulla non ferisce, il nulla anestetizza. Il vuoto fa un male boia, perché grida, ruggisce, deve essere riempito.
La realtà è che dobbiamo fuggire il nulla e cullare il nostro vuoto, a costo di ferirci, anche se in alcuni frangenti la tentazione del nulla si fa sentire.


domenica 1 febbraio 2015

Gli occhiali di Dio

Gli occhiali di Dio

Volgeva al termine il convegno internazionale dell’occhialeria.
Per cinque giorni mega-industriali del settore, stilisti, medici, inventori e rappresentanti sindacali avevano ascoltato le prolusioni dei massimi esperti mondiali nel campo dell’occhiale. Il mercato delle lenti a contatto, concorrente per tutti indigesto, per la soddisfazione generale sembrava essere entrato in una crisi davvero irreversibile, mentre le montature alla moda prodotte in particolar modo in Italia riscuotevano un successo senza precedenti. La nota stonata era che era impossibile, in quella fase, alzare i prezzi per aumentare i ricavi: i clienti non l’avrebbero accettato.
Ogni anno il convegno veniva ospitato presso la sede di una diversa multinazionale, in una sorta di accordo a rotazione che faceva tutti contenenti. Quell’anno toccava alla mega produttrice di occhiali che ha sede nelle valli delle Dolomiti bellunesi. Ma se così tanta gente, da tutto il mondo, aveva deciso si abbarbicarsi a millecento metri d’altezza per sopportare ore e ore di rapporti, slides e presentazioni, lo aveva fatto per un motivo semplice: le conclusioni del convegno sarebbero state tratte da uno dei più grandi maestri della storia della produzione degli occhiali.
Di lui si sapeva poco: aveva sicuramente più di 80 anni, forse quasi 90, ed era ormai quasi completamente cieco. Dopo una vita tra le università di tutto il mondo per insegnare e studiare i segreti dell’ottica, si era ritirato in una baita isolata al centro di un’ampia valle, dove, forse per sincera passione, forse per non rassegnarsi a morire, con i suoi pochi vecchi strumenti, continuava a costruire montature per occhiali. Le più belle al mondo. La multinazionale, che le acquistava a caro prezzo, le riservava solo a multimilionari, teste coronate e piloti di Formula 1.
«L’occhio umano è un vero miracolo. Per molti è la dimostrazione del “disegno intelligente” nell’evoluzione, una chiara impronta di Dio nella creazione perché ci accorgessimo di Lui. È vero, secondo voi?». Iniziò, curvo su sé stesso, quasi sputando sul microfono del lussuosissimo centro congressi. Era ovviamente una domanda retorica. Tutti annuirono. Qualcuno arrivò ad applaudire sbracciandosi facendo tintinnare il suo rolex.
«Sbagliato!», li sgridò con forza. «Il nostro occhio è un’autentica schifezza, capace di filtrare solo un briciolo, un infinitesimo della realtà che ci circonda. Lo spettro che vediamo comprende onde luminose che vanno dai 390 ai 700 nanometri. Se consideriamo tutte le frequenze, le onde, e i fenomeni che avvengono in natura, quello che i nostri poveri e ciechi oggi riescono a scorgere non è che una pagina, un indice, di un’opera infinita».
La platea era impietrita. Solo il mega-patron della multinazionale, in prima fila, gongolava tra sé e sé.
«La nostra vocazione – continuò il vecchio, sempre chino su sé stesso, guardando il tavolino di plexiglass che aveva sotto di sé – è quella di ridare la vista a chi non vede. Mi dispiace signori, ma dopo settant’anni di questo mestiere ho capito che noi non siamo all’altezza di questo compito». La sua voce tradiva l’amarezza di una vita.
«Possiamo solo restituire le poche diottrie che malattie, piccole malformazioni o la semplice vecchiaia tolgono alle persone. Il fatto è che se parliamo di vista, tutti noi siamo pressoché ciechi. Non potremo mai far vedere ai nostri clienti la realtà che li circonda com’è davvero. Perché la osservino, per una volta, con la chiarezza con cui la vede il Creatore».
Si pulì gli occhiali spessi a collo di bottiglia, si soffiò il naso, e riprese a parlare.
«Mi domando spesso quante diottrie abbia il Creatore. Se ci limitiamo al mondo fisico potrei azzardare qualche decina di milioni, soprattutto se confrontate con le nostre misere dieci. Ma se ci espandiamo al mondo spirituale, direi che le sue diottrie possano rientrare nell’ordine di qualche centinaia di miliardi».
In fondo alla sala congressi un giovane oculista norvegese, che ascoltava con un paio di cuffie la traduzione simultanea, osò ridere rumorosamente, ma fu fulminato dagli sguardi di chi lo circondava.
«Ebbene… Il Creatore ha una visione della realtà totalmente diversa dalla nostra. Vi ricordate il mito della Caverna di Platone? Qualcosa del genere. Però noi non siamo delle ombre di idee eterne, assolute e immutabili».
«Siamo noi quelle idee eterne, assolute e immutabili». E sbatté la sua mano rugosa con forza sul plexiglass, tanto che qualcuno pensò si fosse scheggiato. «Se solo vedessimo la realtà con gli occhi del Creatore… Se solo potessimo vederci con gli occhi del Creatore…». Sbuffò.
Rimase in silenzio qualche istante, poi riprese: «Fortunatamente, non siamo sempre limitati dalle nostre misere diottrie. Altrimenti saremmo come gli animali, o le piante. No, no. Il Creatore ogni tanto ci fa trovare sul naso, quasi per magia – o per miracolo – degli occhiali di sua fabbricazione. Sì, sì, sento in fondo voi là che ridete… Ma avete avuto anche voi, sicuramente, in alcuni momenti della vostra vita, la prova di quello che vi sto dicendo».
«A volte ci vuole un po’ perché questi occhiali – come quelli che produciamo noi – ingranino davvero. Perché mettano a fuoco l’oggetto. Con questi occhiali speciali, il cui brevetto è tenuto segreto dal Creatore, sarete in grado di vedere una piccola parte di realtà – una passione, un’idea, un paesaggio o una persona – per quello che è davvero. Solo che questa passione, quest’idea, questo paesaggio o questa persona non la scegliete voi. Il Creatore ha calibrato questi occhiali perché filtrino solo una piccolissima parte della realtà, perché se no la nostra testa esploderebbe. E li ha dotati di un potenziale di ingrandimento minimo, perché altrimenti sarebbe il nostro cuore ad esplodere».
«Quando qualcosa conquista completamente la vostra attenzione, quando un ideale vi spinge a compiere azioni e imprese che non avreste mai immaginato, quando vedete negli occhi di un’altra persona un oceano di bellezza… non sono illusioni. È così che sono realmente».
Tossì più volte, si schiarì la voce, mentre tra il pubblico era piombato un silenzio maestoso.
«Non sempre le passioni danno frutti positivi. Non sempre gli ideali fanno conseguire glorie e trionfi. E non sempre i grandi amori vengono ricambiati… Tanti giovani ottici mi hanno domandato se non sia meglio togliersi quegli occhiali, che il Creatore a volte ci mette con forza se non addirittura con violenza. Perché – lo so bene io che vedo il sole sorgere ogni mattina – troppa luce fa male. Troppa luce può accecarci…».
«Sì. È possibile», continuò, «possiamo, anche se a fatica, toglierci questi occhiali speciali. Ma ne vale davvero la pena?».
Si alzò, sorridendo per la prima volta da quando aveva iniziato a parlare: «Il mio consiglio è semplice. Mai, mai avere paura della luce. Anche quando fa male. Anche quando vi acceca. Fuggite il buio. Anche quando vi consola. Anche quando sarete tentati di nascondervi in esso».

E prima di tornarsene nella sua baita, si lascio sfuggire: «Dicono che un falegname con milioni di miliardi di diottrie, qualche anno fa, vide così chiaramente il mondo che si decise a salvarlo…».

martedì 13 gennaio 2015

Provvidenza. Il perché di una strada.


Devo una spiegazione a chi in queste ore mi vede esplodere di contentezza.
Febbraio 2002. Un ragazzino timido e introverso, dotato però di quintali di fantasia, dopo mesi di tentennamento e paure ataviche decide di rompere le scatole al papà per avere un computer nuovo dotato di accesso ad Internet. Questo ragazzino va benino a scuola, ma non è un mostro come il compagno di banco Paolo Fania. Fa il catechista, attività che gli piace molto, ma non osa diventare anche animatore ACR perché teme il contatto con i coetanei, considerati troppo "chiassosi e casinari". Il futuro per lui è un'incognita. "Alle medie dicevano che avrei potuto fare l'avvocato perché parlo tanto". Si ripete. E allora? Giurisprudenza? Scienze Politiche? Altre idee nebulose da seguire? Forse. Ma nessuna di esse è colorata di quel verde speranza che connota ogni sogno degno di tal nome.
Quel ragazzo teme Internet. Ha paura di diventarne dipendente, e che il tempo sottratto agli studi lo renderà un fallito, perché tutti lo sanno: un 5 in un'interrogazione di filosofia in prima liceo (classico) non solo ti impedirà l'accesso all'Università, ma ogni ipotesi di felicità futura. Ma alla fine i videogiochi on line descritti sempre da tal Fania vincono ogni resistenza e quel PC arriva. Internet non funziona per un mese abbondante. Poi parte, magicamente, la domenica delle palme del 2002.
E quel ragazzo non peggiora il suo rendimento scolastico, semplicemente, inizia a scoprire il mondo filtrato dal modem. Prima il web era una "toccata e fuga" dal laboratorio del Liceo Classico Tito Livio(come non ricordare il sito della WWF quando ancora si chiamava così). Ora c'erano i tempi dell'approfondimento.
All'epoca funzionano i newsgroup. La gente, per non tenere il telefono occupato ore e soprattutto per non spendere tonnellate di nuovi euro (ex-vecchie lire) in bollette, navigava con outlook. Scaricava tonnellate di mail e poi chiudeva tutto.
Il ragazzo adora gli anime, i cartoni animati giapponesi. Soprattutto Ranma, trasmesso dalle Tv locali. La storia di un giovane maestro di arti marziali che diventa donna se si bagna con l'acqua fredda. Una storia comica, demenziale, imperdibile se hai 16 anni.
Il giovane del Tito Livio, che ricordiamo, è anche molto sovrappeso, si imbatte in un archivio di fanfiction. Storie comiche, demenziali, che collegano i personaggi dei cartoni ai protagonisti dello sport, della politica, dell'attualità, generando ore e ore di divertimento e di fantasia. Il ragazzo è colpito soprattutto da un autore, il primo e il più importante. Dalla mail capisce che è dell'Università di Padova, come tre quarti dei giovani del Nordest, e che ha scritto a metà degli anni '90. Il suo stile lo colpisce. Ricorda Benni, ma non è Benni. Crea situazioni fantastiche, geniali, satiriche e allo stesso tempo umoristiche oltre ogni misura. Quell'autore lo conquista non solo perché è il migliore, ma perché non si pone limiti. I personaggi si incontrano tra loro, mondi diversissimi vengono a cozzare. Impazzisce per la commistione di generi e di situazioni. E allora, il 5 maggio 2002, allietato dalle lacrime di Ronaldo che decretano lo scudetto per la sua Juve, inizia a digitare tasti a casaccio. Lo farà per tutta l'estate. E questo ragazzo dà vita a mondi paralleli.
I primi file di testo (Word no, Word troppa confusione) ricalcano la punteggiatura e lo stile di questo autore. Ci sono errori giganteschi, enormi, di ortografia, oltre che di grammatica. Il lessico è un disastro, povero come il Ministro del Tesoro greco. Ma migliora, giorno dopo giorno. Il ragazzo, che ha sudato un'estate in palestra perdendo una quindicina di chili, quando torna a scuola è un altro. Inizia a prendere qualche 9 nei temi d'italiano, quando prima prendeva solo qualche 6. "Fa" si scrive senza apostrofo. Il congiuntivo non è una malattia dell'occhio ma un modo verbale. E così via.
Ma il cambiamento più grande è nella testa. Capisce che forse ha trovato qualcosa che gli piace davvero. Scrivere. E questo gli dà sicurezza in ogni campo della sua vita.
Nel novembre 2002 il suo professore di italiano, consegnandogli un tema satirico valutato con un 9, gli mette una mano sulla spalla e prorompe: "Sicuramente ti farai strada in questo campo". La rotta viene tracciata. E resterà quella.
Certo: tempeste, disastri, naufragi si susseguono. Ma non ci sono dubbi sulla scelta del percorso di studi. Non ci sono dubbi, per quel ragazzo, sul fatto che pigiare tasti su una tastiera sia la cosa più bella del mondo. Aspettare le reazioni. Gradire un complimento e arrabbiarsi per una critica ritenuta - forse troppo - ingiustificata. Spingersi con la fantasia creando scenari assurdi e proprio per quello unici, anche nel commentare qualcosa di così banale da far venire il latte alla ginocchia.
Non sa per chi scriverà. Sa che scriverà. Romanzi, articoli, storie, interviste, comunicati stampa, testi per trasmissioni radiofoniche, sms, newsletter, tweet. Basta dar vita alle parole. Il suo animo cattolico lo porta in una certa direzione, mediatica-comunicativa, che non tradisce in alcun modo quella spinta fantasiosa. Anzi. Il ragazzo si pente di non aver messo abbastanza passione e sogno in quella sua voglia di creare, come il Padre nella Genesi, abbastanza mondi dal nulla di una schermata bianca.
L'autore misterioso, il motore immobile che ha dato il via a questa deprecabile serie di eventi, resta tale per 15 anni. Il ragazzo, specie all'inizio, prova a contattarlo per mail, ma riceve in cambio solo messaggi di errore. Poi se ne dimentica, anche se ogni giorno segue il moto innescato da quel motore. Se nel frattempo, in California, un ragazzotto ebreo non avesse creato il Moloch dal quale state leggendo questa storiella, probabilmente tutto sarebbe finito qui. E invece no.
Perché nel gennaio 2015, il ragazzo, che aveva già avuto in passato alcuni sospetti, chiede su Facebook l'amicizia a un signore dal nome inequivocabile che trova per caso.
E' uno del posto. Abita a pochissima distanza da lui. Uno sceneggiatore che scrive un film non si inventerebbe mai un colpo di scena così incredibile, per l'appunto, non credibile. Perché in un paese di 60 milioni di abitanti è statisticamente impossibile che un nome anonimo da internet che senza volerlo ha indirizzato nel verso giusto la tua vita appartenga ad uno del tuo paesello, che conta per lo più poche migliaia di abitanti. E invece questo avviene. Mi presento. Forse il signore nemmeno ci crede. Probabilmente i ricordi di quelle storielle sono più annebbiati per lui che per il ragazzo, ormai alle soglie dei 30 anni. Ma si dichiara sorpreso e incuriosito, anche perché forse per lui quelle storielle erano un divertissement simpatico e una pietra miliare dell'esistenza. Inutile fare dei complimenti: il ragazzo si limita a dire grazie. Un grazie al signore, fantastico autore di fanfiction degli anni '90, e un grazie alla Provvidenza, che dalle piccolissime cose ti mette sempre nella strada giusta, a volte pure prendendoci un po' in giro.