mercoledì 25 dicembre 2013

Auguri a tutti!

Auguri a tutti!
Auguri a questo blog, rinato due mesi fa con tutti gli entusiasmi di questo mondo e morto nuovamente sotto una mole gigantesca di lavoro. E grazie a Dio che ogni tanto c'è.
Auguri a me, che me lo merito, anche se di "Attimi di Pace" non ne vedrò durante queste "vacanze" di Natale. Sottolineo le virgolette. E grazie a Dio.
Auguri alla natura che mi circonda, auguri alla pioggia che ci minaccia come sempre, come da suo hobby e auguri al dissesto idrogeologico sintomo superficiale di un dissesto interiore della civiltà italica.
Auguri ai terroristi de IlMeteo.it, secondo le cui previsioni dovrebbero esserci come minimo quattro alluvioni, tre terremoti e due invasioni aliene ogni sei mesi.
Auguri a Papa Francesco, che scalda i cuori e auguri a chi - come me - forse si stanno lasciando prendere un po' troppo dall'entusiasmo verso il leader carismatico e magari - per colpa unicamente loro - perdono di vista il Messaggio abbagliati dalla luce del Messaggero.
Auguri ai giovani "freschi" dell'Azione Cattolica di Roncaglia, totalmente diversi dai giovani "stagionati", che devono trovare - e forse già lo stanno trovando - un loro stile, di cui siano loro i padroni e gli artefici. Indipendenti e liberi come solo le belle notizie possono essere.
Auguri alla mia apprensione su tutto, che mi impedisce di godermi tutti i momenti lieti ma che mi ricorda costantemente le cose importanti della vita.
Auguri alle mie debolezze, che mi ricordano che sono umano.
Auguri al mio perfezionamento interiore, ai miei passi da gigante in più scacchiere dove si gioca la partita della vita, solamente a patto che non mi facciano sentire, nemmeno per un momento, migliore degli altri, povero di carità e dunque triste e depresso come il fratello maggiore della Parabola.
Auguri al mio lavoro, anche se più che di lavoro ormai si può parlare di cammino. Soprattutto da parte di uno che ha fatto il gravissimo ma sublime errore di confondere il lavoro con la vocazione, gli ideali con la professione, la missione con il mansionario. Ma è quel tragico e sublime disastro che ti fa serenamente svegliare alle sei e andare a letto all'una pur di lanciare un messaggio.
Auguri ai miei amici, che sempre più posso chiamare tali.
Auguri a quell'intuizione rimasta tale.
Auguri a Gesù, a cui mi rivolgo sempre troppo razionalmente, come l'ingegnere scemo che vorrebbe riassumere la bellezza di un rustico di campagna in due calcoli sulla stabilità strutturale dell'edificio.
Auguri agli animati/educati da cui ormai - da anni - si impara più di quello che si "insegni". Anche se il termine, in contesti di AC, grida vendetta al cospetto dei cieli.
Auguri ai fiocchi con cui abbiamo tappezzato Roncaglia per annunciare una nascita. Soprattutto a noi stessi. Soprattutto a me stesso. Sempre per il discorso dell'ingegnere di prima.
Auguri alla politica, perché la smetta di indorarci la pillola, e auguri all'Europa, ormai unica patria a cui mi sento di appartenere (oltre alla Santa Sede, ovviamente).
Auguri a tutti, perché tanto fra cento anni saremo tutti morti. Ma soprattutto auguri a tutti, perché fra cento anni saremo sì tutti morti ma non saremo morti davvero. Il bimbo di Betlemme non lascerà svanire di noi manco una lacrima, figuratevi il resto.

sabato 9 novembre 2013

O Europa o morte! A caldo, da Openfield.

Una festa di compleanno triste.

E' questa l'immagine che mi porto a casa da Openfield di oggi, e, in particolare, dalla tavola rotonda nella quale Pierluigi Castagnetti e il senatore Gabriele Albertini, entrambi con una lunga esperienza da parlamentari europei erano chiamati a tracciare un profilo dell'Europa di domani. E soprattutto come arrivarci.

Per festa di compleanno triste intendo quei mesti genetliaci di alcune persone, che invece di gioire per il futuro che hanno di fronte, si lamentano delle sfighe del presente e degli errori del passato. Le candeline sono la condanna di un tempo corso troppo in fretta che ricorda, senza pietà, tutte le cose non fatte, o peggio ancora, fatte male.

Non hanno detto nulla di sbagliato. Sognavo però di sognare, non solo di fare i
conti con le disgrazie del presente.

Ringrazio Castagnetti e Albertini per le precise indicazioni fornite. Li ringrazio per avere messo il dito nella piaga di un'Europa bloccata sul nascere, quando si doveva cominciare a giocare sul serio, a Nizza, nel 2000, dalla paura e dalla codardia dei capi di governo. Di un'Europa incapace di incidere, che ha sì una moneta unica da gestire ma che non ha un vero e proprio governo che detti una linea economica. Di un'Europa giocoforza germanocentrica dopo l'allargamento, in cui Frau Merkel aumenta di mese in mese la sua influenza come il bulletto in piena pubertà che diventa sempre più il terrore dei bimbi gracilini nei giardinetti pubblici.

Albertini e Castagnetti - ma soprattutto Castagnetti - hanno prefigurato stasera il disastro dell'Unione continentale in occasione delle prossime elezioni europee. Il rischio concreto è che gli anti-europeisti posino in gran numero le loro terga sugli scranni di Bruxelles. E che il sogno di Adenauer, Schuman e De Gasperi naufraghi definitivamente tra gli scogli delle scuregge e dei vaffanculo di Beppe Grillo e della faccia da mr. Bean di Nigel Farage, condannandoci, di fatto, alla marginalità in un mondo sempre più globalizzato, a farci fare il sederino a tarallo dalle economie emergenti dei BRICKS.

Quando ero bimbetto l'europeismo lo si costruiva anche con le canzoncine della Cristina d'Avena. Intrattenimento costruttivo. E adesso? Cliccate per sentire la voce della D'Avena quand'era ancora mezzosoprano e non contralto andante.

Il magone mi è sorto spontaneo come una domanda di Lubrano. Mi è passata, nel mare di mestizia, pure la voglia di farmi fare da Albertini un'imitazione personalizzata di Paolo VI come fa di solito a quei simpatici senzadio di Cruciani e Parenzo.

Se non mi sono dato fuoco in uno dei corridoi della Facoltà Teologica è soprattutto grazie alle parole di speranza udite da mons. Aldo Giordano, osservatore della Santa Sede presso il Consiglio d'Europa uscente e nuovo nunzio apostolico in Venezuela, al posto di Parolin, come vescovo, entrante. Nel suo nuovo libro: "Un'altra Europa è possibile", sintetizzato per l'auditorio, ha delineato come la Chiesa può incontrare e risvegliare l'Europa proprio nel suo bisogno di Dio, sintetizzato nel "Dio è morto" di nietzschana memoria. Un'Europa che, dopo essere stata scombussolata dalla crisi come una vecchietta sulle montagne russe di Gardaland, ha perso la sua spocchia e la sua sboronaggine ed è di nuovo capace di ascoltare e di mettersi in ricerca, illuminata da un Dio che muore non solo figuratamente ma davvero. E risorge per noi, con noi.

Al suo confronto, Albertini, e in particolare Castagnetti, mi sono sembrati delle prefiche siciliane che si strappano i capelli (chiedo scusa all'ex sindaco di Milano per l'esempio infelice) dietro un carro funebre, trainato da splendidi cavalli, con dentro la cassa da morto contenente l'Europa.

Mons. Aldo Giordano. Personalmente, la mia scoperta di oggi.

Ripeto: li ringrazio per le loro parole. Loro hanno fatto la pars denstruens, io qui, delirando col mio stile da blogger giovine e aggressivo, propongo la pars construens. Che leggerò solo io, ma, che me ne cale?

Il buon Castagnetti ha individuato i due momenti di massimo splendore per l'europeismo nella fine della seconda guerra mondiale, con lo spirito di Ventotene, che portò al trattato di Roma, e nel crollo del muro di Berlino, con l'asse Kohl e Mitterand, che portò all'Euro. Due momenti critici, tremendi, in cui l'Europa ha fatto i conti davvero sul perché deve stare insieme, coi piedi nudi posati ancora sui cocci taglienti della follia nazista e comunista. Abbiamo davvero bisogno di superare una tragedia, un lutto, una disgrazia per unirci, volerci bene e capire che è fondamentale stare insieme? Cosa ci serve? Una pandemia? Un'apocalisse zombie? Un'invasione aliena?

No, ma, seriamente, ve lo immaginate un Indipendence Day con Barroso che fa
il celebre discorso del presidente Whitmore? L'unico in Europa con il carisma
necessario per farlo è vestito di bianco ed è, formalmente, di nazionalità argentina.

La proposta la faccio io: rendiamo il superamento di questa tremenda crisi il rito di iniziazione, il mito fondativo della nuova Europa federale, degli Stati Uniti d'Europa. Facciamolo da cristiani, facciamolo insieme. Proponiamo una visione, un sogno, nel silenzio del cuore e nel frastuono delle parole vuote che stiamo attraversando. Noi cristiani ce l'abbiamo: è la stessa speranza che ci anima da duemila anni. "Se Cristo ha vinto la morte - ricordava, in un tripudio di gioia e di carisma pastorale, un meraviglioso mons. Giordano - ci aiuterà pure nella crisi economica, nella gestione dell'immigrazione e negli altri problemi che abbiamo come Europa".

Io sono ottimista, testardamente ottimista, dannatamente ottimista: anche se la tergona non coitabile e qualche mesto politicante riuscirà a farci disinnamorare dell'Europa, anche se da giugno gli euroscettici non solo dovessero ottenere un bel risultato, ma addirittura divenir preponderanti, e dovremmo assistere ai movimenti intestinali di quello che faceva la pubblicità dello yogurt Yomo anche a Strasburgo, l'Europa non finirà. Non torneremo a stampare le lire, ad esibire il passaporto a Ventimiglia o a sparacchiarci in una trincea sulla linea Maginot per il controllo delle miniere dell'Alsazia e della Lorena.

L'Europa deve rilegittimarsi, ridarsi senso, anche quando le radici dei ricordi iniziano
ad asciugarsi dal sangue versato nelle due guerre mondiali. Non basta però
ricordare gli orrori prima dell'Europa unita e i 70 anni di pace che l'Unione ci ha regalato.
Bisogna, a mio avviso, trovare nuovi miti fondativi.
Perché l'Europa è un processo avviato, non si può fermare. Dovessimo attendere venti, trenta, quarant'anni, gli Stati Uniti d'Europa saranno realtà. Perché la storia va lì, in quella direzione, e non si può cambiare. Da Cesare a Carlo Magno, da Napoleone a Hitler, da Adenauer al professor Monti, l'idea di Europa (e le sue orrende deviazioni) non ci abbandona. E nel mondo dove le distanze sono ormai zero, per contare o siamo uniti o non ci siamo. O Europa o morte.

Forse abbiamo solo bisogno della visione politica di qualcuno capace di vedere due centimetri al di là del suo naso. Aspettiamo, ne varrà la pena.

Prima o poi, qualche politicante illuminato dalla scaltrezza e dallo Spirito con la S maiuscola si rialzerà dalla polvere e dalle macerie lasciate dai governi egoisti e dagli euroscettici di pancia. Un raggio di luce lo illuminerà ancor di più, e le speranze di tutti si riaccenderanno di colpo, fortissime, come destatesi da un sonno durato secoli, come l'alba che squarcia il buio orizzonte. Quel qualcuno non farà cose straordinarie. Sarà semplicemente, come Carlo V, come Shumann, come Kohl, come Prodi, come Mitterrand, l'ennesima pedina della storia, che, sotto dettatura, farà il suo compitino. Spalancandoci le porte del futuro.


P.S.

Se avete davvero compiuto l'impresa di arrivare alla fine di questo post, lasciatemi un commentino, grazie.

giovedì 7 novembre 2013

Segni di croce in motorino

Devono avermi davvero traumatizzato da bambino.

Nei primi anni di vita cosciente, infatti, ho interiorizzato gran parte dei contenuti relativi alla fede cristiana come norme da rispettare, preghiere da dire, gesti da fare. Il vero Vangelo l'ho conosciuto molto più tardi, nel silenzio della grotta sul Gave, nella sofferenza di Giovanni Paolo II, nelle parole di Benedetto sulla ricerca dei magi nella spianata di Marienfeld a Colonia, nell'infinita misericordia di chi supera di gran lunga con l'amore la nostra miseria.

Farisei d'annata, cristiani che se Cristo tornasse in terra fisicamente non lo
crocifiggerebbero più, dato che la crocifissione è passata di moda.
Si limiterebbero a fargli fare un giretto nella macchina del fango. 
Della vecchia religione legalistica e farisaica ho conservato però parecchio. L'ho fatto perché molte pratiche, una volta riorientate, sono comunque utili e preziose per una vita interiore che si rispetti.

Ho mantenuto l'abitudine di farmi sempre il segno della croce di fronte a chiese, capitelli, immagini sacre. Così, sovrappensiero. Anche in bici e in motorino.

Nei miei tragitti in motorino casa-lavoro c'ho i miei posti "segno di croce". Ormai naturali, marchiati a fuoco nel mio GPS cerebrale. Tra questi la basilica del Santo, il Duomo di Padova, la statua di Pio X.

Questa foto l'ho scattata io, il 17 marzo del 2011, giorno in cui
l'Italia unita spegneva le sue prime 150 candeline. Qualche
simpaticone aveva pensato bene di festeggiare la ricorrenza
macchiando con la vernice verde il municipio. Il
sindaco Rinuncini mi commentò così, per il mio pezzo sul
Mattino : "Si sono dimenticati il bianco e il rosso per fare il
tricolore". Nella foto si nota, da solo, a sinistra, mio papà, mentre
il primo da sinistra nel gruppetto è il compianto Dino Moro,
consigliere mancato pochi mesi fa.
Mi sono accorto, però, recentemente, che mi faccio, senza volere, il segno della croce anche di fronte al Municipio. Inizialmente è stato uno shock.

"Perché richiamo la dimensione sacra di fronte al luogo in cui entro per carpire informazioni, aspettare il sindaco, scherzare con quel zuzzurellone di Maurizio della segreteria e importunare qualche povero impiegato degli uffici tecnici?".

Poi mi sono dato una spiegazione.

Trono e altare. Le due spade. Il rapporto tra mondo sacro e mondo politico è antichissimo: ci sarà una ragione.

Farsi il segno della croce di fronte al luogo per eccellenza della politica e dell'amministrazione locale. Non solo è giusto, ma è sacrosanto.

Carlo Magno.
Derido i nostalgici di partiti politici di vent'anni fa.
E io ammiro un casino un politico di 1200 e passa
anni fa. Tant'è. Ma il buon Karl der Große è il vero
padre del nostro Occidente. Sovrano giusto
e illuminato, ha dato un boost all'Europa,
aiutandola a "snebbiarsi" dai fumi dell'Alto
Medioevo. E la fede, ovviamente, è stata per
lui fondamentale. La Chiesa lo venera come
Beato, checché se ne ignori la devozione. 
Ogni potere deriva da Dio. Ma soprattutto, la politica è l'arte non tanto del compromesso, quanto del bene comune. E' la massima opera di carità. E' la presa di responsabilità assoluta della creazione di Dio. E può essere animata dalla carità stessa, come spiega Benedetto XVI nella "Caritas in Veritate". E la carità, l'amore, è Dio stesso, come ci ricorda sempre il buon Benedetto XVI - del quale sentiremo sempre più la nostalgia nonostante quel sole splendente che è Francesco - nella sua "Deus Caritas Est".

Quel segno della croce, fatto in velocità in motorino in Viale del Lavoro, con l'asfalto irregolare che ti fa sussultare su e giù come i fagioli dentro la pentola a pressione, non è solo preghiera di raccomandazione. Ma è anche, e soprattutto, il riconoscere che il sacro non ha confini.

E' sacro il lavoro che c'è ed è sacro il lavoro che manca. E' sacro lo sport. E' sacra la musica, anche la musica che non è sacra. E' sacra la sessualità. E' sacro il cibo. Ed è sacro l'impegno politico.

E i "consacratori" di tutte queste dimensioni siamo noi: sacerdoti, re e profeti. Anche con un segno di croce in motorino.

domenica 3 novembre 2013

"Ci pensa Rocco". No, guardi, grazie, facciamo da soli.

Nella tragedia della Tv ormai priva di idee, assistiamo nell'ultimo periodo alla proliferazione di due generi soltanto: i talk show politici e la Tv verità.

Per i primi la ricetta è facilissima: prendi dei giornalisti che hai assunto a tempo indeterminato. Ti costano uguale sia che lavorino tre ore per realizzare un servizio di cinque minuti intervistando il premio Nobel Ciccio Pistacchio o documentando la crisi della fabbrica di formaggio della sora Gina, sia che rimangano fermi a fare domande prestampante, limitandosi ogni tanto a scuotere la testa mentre, seduti su comode poltrone e ripresi da qualche telecamera fissa, il sottosegretario X, il vice-portaborse dell'onorevole Y del partito Z, il notista politico della rivista A, la starlette B e il polemista dalla parolaccia pronta C dubitano a vicenda della moralità delle mamme altrui parlando di contraffazioni alimentari, tasse sulla prima casa che cambiano nome più volte di Snoop Dog e della farfallina di Belen.


In America c'avranno pure tanto trash. Ma hanno anche 'sto omino qui, Stephen Colbert.
Dio lo benedica.

Il risultato sono parole, parole, parole. Parole capaci di coprire pure i - pochissimi - fatti che ci sono rimasti. Le agenzie rilanciano le dichiarazioni, le dichiarazioni diventano fatti, i fatti spariscono. Tutto è relativo, nulla di certo esiste. E il caro Benedetto XVI, nel suo convento di clausura in Vaticano, che ci aveva avvertito della dittatura del relativismo, ci guarda da distante, sospirando e scuotendo il volto, verso una nazione dove pure le cifre, i dati e i fatti diventano relativi.

Le Tv puntano sulla quantità, perché, in tempi di crisi...




L'altro genere è quello della Tv verità.
E anche per questi, la ricetta è - apparentemente - facile. Prendi una troupe e segui qualcuno.

I migliori sono quelli di Discovery, History e tanti altri "channel". Telecamere fisse su gente che lavora. Allora abbiamo il documentario sui boscaioli dell'Oregon, sui pescatori di granchi dell'Alaska, sui camionisti dell'Alaska, sui cercatori d'oro dell'Alaska, perché ormai l'Alaska è una succursale di Los Angeles quanto a produzione di intrattenimento. E poi abbiamo i simpaticissimi adattatori italiani per i quali ogni titolo deve contenere necessariamente la parola Affari.

Affari di famiglia, Fratelli in Affari, Affari Sporchi, Affari di frontiera, Affari a tutti i costi, Affari al buio, Affari qua, Affari là, che ti vorrebbe voglia di afferrare un affare da un affarista, perché, se non afferrano, gli afferri gli affari. E non sarebbe un grande affare.

Il protagonista di Affari di Famiglia. "La Sacra Sindone? Mmhh. C'è poco mercato. Ti do 100 dollari".

E' bellissimo. Un tempo, negli anni '80, la gente lavorava tutto il giorno poi andava a casa a vedere, in Tv gente che non faceva nulla e si lamentava perché essi non lavoravano. Ora invece, che non lavora più nessuno, la gente passa tutto il giorno davanti alla Tv a vedere gente che lavora e si lamenta perché quelli lavorano e loro no.

Comunque, questo giramento di format e affari colpisce anche le - poche - produzioni italiane, che puntavano molto più su un altro format. Quello del tipo bravo, famoso, esperto che ti viene in casa per risolverti un problema angosciante che t'attanaglia la vita domestica.

C'era il messicano che veniva ad insegnarti a tenere a bada il cagnolino. Ci sono le vecchiette con fare nazista, quelle della pubblicità della cioccolata, che ti insegnano a tenere a bada i marmocchi distruggendoli psicologicamente. Ci sono quelli di Real Time che ti risistemano il tavolino, il guardaroba, la casa stessa.

E, adesso, c'è Rocco.

Rocco sbarca sulla Tv generalista. Magari la volta dopo a farlo sarà Jason, quello dei film horror. 

Sì, Rocco Siffredi, il famoso pornoattore, uno dei pochi a superare la breccia che separa l'intrattenimento per adulti (e per adulti intendiamo adolescenti di ogni età che devono ancora crescere per davvero) da quello dei media generalisti. Noto anche a chi la pornografia non la segue. Sì, persone così esistono, e sono molto più numerose di quello che l'opinione pubblica decadente afferma, mentendo come al suo solito.

Insomma, in questo format per famiglie del canale Cielo (vetrina free dell'impero Sky di Murdoch) il buon Rocco va casa per casa, tipo testimone di Geova, per risolvere problemi di coppia. Il suo compito sarà quello di insegnare ai coniugi Brambilla, nei vortici della crisi del settimo anno, non tanto come fare all'amore (mi piace 'sta formula), quanto a ritessere un vero rapporto di coppia, ad amarsi di nuovo, a coccolarsi, a vedersi preziosi l'uno con l'altro. Rocco, infatti, secondo i geni che hanno curato la conferenza stampa di presentazione dell'evento, sarebbe un maestro dell'amore - ripeto, maestro dell'amore - che tutto il mondo ci invidia.


No comment.

Mi immagino già gli stessi autori che faranno un reality dove un gruppo di obesi a livello terminale entrano in una fattoria per dimagrire aiutati dall'esperto Giuliano Ferrara, o un altro dove alcune coppie di tipi incazzosi come iene selvatiche ricevono lezioni di calma da parte del serafico Vittorio Sgarbi.

Siamo lì.

Non vi farò la supercazzola della società decadente, dove i valori di una volta ormai non esistono più e del si stava meglio quando si stava peggio.

L'intera storia dell'umanità è un susseguirsi di miglioramenti e peggioramenti, dove i costumi variano a fasi cicliche.

Ma di fronte a bestemmie così grosse ovviamente non ci si può che inalberare.

Che ha fatto il signor Siffredi per essere considerato un "maestro dell'amore"?

"Tra le meravigliose invenzioni tecniche che, soprattutto nel nostro tempo,
l'ingegno umano è riuscito, con l'aiuto di Dio, a trarre dal creato,
la Chiesa accoglie e segue con particolare sollecitudine[...]
la stampa, il cinema, la radio, la televisione e simili.
A ragione quindi essi possono essere chiamati: strumenti di comunicazione sociale."
Inter Mirifica
(Concilio Vaticano II)

(Il contrasto tra immagine e testo è voluto).

Nulla, semplicemente copulare di fronte a una telecamera quasi tutti i giorni negli ultimi trent'anni con migliaia di donne di ogni tipo e di ogni età (a volte pure uomini, ho letto), in ogni modo e per ogni apparente motivo. Gli basta questo per essere considerato un "maestro dell'amore"? E di quale amore parliamo?

Non tirerò fuori la Deus Caritas Est, per carità. Non mi nasconderò dietro al Magistero come il ragazzino occhialuto e timido si nasconde dai bulli dietro all'amico alto un metro e novanta che gioca a rugby.

Mi appiglierò al senso comune.

E questo senso comune ci grida a tutti - a tutti - che un conto sono le prestazioni atletiche delle quali il signor Siffredi certo non latita, un conto è l'amore. Quello vero. Che non si insegna. Ma si ascolta. Si segue. Si abbraccia.

Il signor Siffredi che insegna l'amore è come il signor Pacciani che insegna la non violenza.

Lezioni d'amore? Invitate me, a casa vostra, care coppie in difficoltà. Vi metto su
i 26 episodi di Conan Ragazzo del Futuro. Non si danno manco mezzo bacetto,
ma di Amore vi insegneranno più Conan e Lana di tutta la filmografia del signor Siffredi.

Anche il più accanito consumatore di pornografia non desidererebbe che la figlia - che non avrà mai in quanto accanito consumatore di pornografia - seguisse le orme di Cicciolina o Moana Pozzi. Perché il sesso può essere una delle cose più belle di questo mondo, ma i signori pornografi lo hanno ridotto a merce. Hanno distrutto l'eros derubricandolo ad oggetto di consumo. Lo hanno svuotato, come una zucca di Halloween, scavata della polpa per ridurla a uno scheletro che sorride spettralmente.

E no, non resterò qui a dirvi che la pornografia fa male, che il mondo della pornografia è marcio e chi guarda pornografia si riduce a una larva d'uomo e di donna.

Semplicemente me ne starò in piedi bello calmo, cartello in mano, nella piazza Tienanmen dei media italiani, mentre i carri armati della cultura del nulla avanzano di qualche altro metro.

sabato 2 novembre 2013

A tre anni dalla grande alluvione: strani parallelismi tra l'incuria di sé e l'incuria del territorio

Mi piace fare dei salti indietro nel tempo.

Rivedermi, negli anniversari, e pensare dov'ero, che stavo facendo, cosa indossavo, a che cosa pensavo.

E così mi sovviene che tre anni fa, in questo momento esatto, ero seduto alla scrivania dell'assessore Adriano Cappuzzo. Sotto le dita lo stesso computer, gli stessi tasti che sto pestando adesso.

Di fronte a me Fabiana Pesci - anche lei del Mattino. Di fianco a lei Giovanni Viafora - del Corriere del Veneto.

Tutti impegnati a condensare, ospitati in quel micro-ufficio, chi in più chi in meno righe, l'immane dramma di cui eravamo stati testimoni privilegiati. L'alluvione del 2 novembre 2010: l'argine squarciato dalla pressione del Bacchiglione, durante la notte, all'altezza della discarica. Milioni di tonnellate d'acqua che si riversavano per la campagna. L'acqua che saliva, pian, piano, contro la gravità, fino a lambire il Municipio. Poi, nel pomeriggio, l'acqua che trovava come farsi strada verso sud, inghiottendo prima Casalserugo e poi Bovolenta. Le case divorate dall'acqua e dal fango. E poi, dalla miseria più nera.

Mattina del 2 novembre 2010. Sul forum che frequento mi hanno irriso per settimane solo
per quel mio essere comparso su un telegiornale nazionale. In realtà ero nell'angoscia più nera. 


Ricordo gli anziani in carrozzina in attesa nel salone del municipio, i volontari che prendevano ferie per star vicino agli alluvionati, la giovane coppia, con lei incinta, venuta ad occupare il suo nido d'amore solo il giorno prima che il fango lo rovinasse irrimediabilmente.

Non scendo nei particolari, anche perché i particolari, anno dopo anno, in occasione degli anniversari, sono stati sviscerati e riportati su carta, sul web, sulle immagini delle Tv, prima che l'oblio riducesse pian piano i loro spazi fino quasi a scomparire, in attesa che tragedie come queste abbiano a ripetersi. Prima o poi.

Le scarpe impiastrate di fango, il corpaccione da 140 kg (più di 40 chili in più di adesso) affaticato e stremato, il giaccone sgualcito inumidito per il sudore da dentro e per la pioggia da fuori.

Scrivevo per il Mattino da ventitré giorni. Troppo poco per capire come affrontare un disastro che anche colleghi ben più anziani avevano timore di approcciare. Ma nel cuore, un pensiero: "Se avesse rotto un poco prima, o addirittura a Roncaglia, dietro casa mia, avremmo avuto decine di morti". E il panico.

Impossibile descrivere come ci si sente di fronte al trionfo schiacciante delle forze della natura
sopra il dominio umano. Una ribellione che non si può schiacciare.

Abbiamo smesso di considerare la natura, il cambio delle stagioni. Abbiamo iniziato ad annullare l'estate coi condizionatori e l'inverno coi termosifoni, ignorando la possibilità, che ne so, di indossare un maglione invece di alzare il termostato. Abbiamo smesso di guardare ai fiumi e ci siamo concentrati - come mi ricordava qualche giorno fa il buon Maurizio Padovan del Centro Toniolo - solo sulle strade, sul cemento e sugli impianti produttivi. Sul potere dei "schei".

I pochi che continuano a fregarsene appena un po' della natura sono i vogatori, i cacciatori, i pescatori e qualche altro che si può contare sulle dita di una mano.


La chiesa di Roncajette è stata risparmiata per via di uno strano gioco di pendenze.


Pesavo 140 chili. E non mi pesava. Perché del mio corpo non me ne fregava assolutamente nulla. Non ero io quel corpaccione impacciato, puzzolente e invadente. Non mi radevo, non mi pettinavo. Facevo schifo al mondo e mi facevo schifo io. Semplicemente non ci badavo, e vivevo in un mondo ideale, pulsante di immagini e sogni astratti, sempre più alienato da me. Non che adesso sia un adone, ma in questi anni ho imparato ad entrare in contatto con la mia dimensione più profonda. Ho imparato ad ascoltarmi. Ho capito come controllarmi, e a mangiare fino a che il mio corpo aveva fame, e non fino a quando la mia mente mi chiedeva di sfogarsi col piacere del cibo. Ho capito come curarmi e ho imparato ad andare in giro non come un barbone ma come un piccolo borghese, banale, senza nulla da dire, come tutti.

Il Veneto è uguale. Il Veneto che vedo oggi è lo stesso Andrea del novembre 2010. Si ricorda di essere stato bello. Parla continuamente di radici contadine, di cultura veneta contadina, capace di vivere a stretto contatto con la natura e con i suoi ritmi. Nei suoi sogni il Veneto si vede ancora coi casoni col tetto di paglia, con le vecchiette dai lunghi abiti e dalle cuffie intente a fare il filò, della laguna che si perde a distesa d'occhio, delle montagne purissime ancora non cimitero di milioni di soldati, di città d'arte in cui anche l'ultima delle pietre racconta, cantando in armonia, la sua storia millenaria. E su questi sogni il Veneto investe pure valanghe di soldi, per festival, pubblicità, comunicazione. Per dare un'immagine di sé ormai morta. Il Veneto, segretamente, sa di fare schifo oggi, e vive di ricordi. Perché nei suoi ricordi non solo è bello, è meraviglioso, una terra baciata da Dio in ogni modo con cui Dio può baciare un lembo di terra tra il Po e le Alpi.

Il livello dell'acqua. Senza precedenti. O meglio, con precedenti molto molto remoti.

Ma non è più così. Edificato, cementificato, stuprato ovunque in lungo e in largo, la nostra Regione ha smesso semplicemente di guardarsi allo specchio. Il Veneto non affronta di petto quel suo fare schifo. Quel suo avere un sistema cardiocircolatorio - i suoi fiumi - allo sfascio, dopo decenni di incuria, di vizi, di eccessi. E questo non è che il primo della sua lunga lista di problemi.

Certe opere post-alluvione mi sembrano le cure post-infarto di certi malati che si illudono che una cardioaspirina e qualche piccola operazione possano risolvere tutto. Ma come tutti i post-infartuati, il Veneto deve cambiare regime. Completamente. Deve finalmente tirare la tendina dallo specchio e deve osare guardarsi allo specchio, per accorgersi, finalmente, senza filtri, che fa schifo. Ma, tra le cicatrici degli abusi e le rughe dello sfacelo, il Veneto deve accorgersi di quanto è ancora bello. Di quanto può essere davvero la Regione più bella e più sana del nostro già immensamente bello Bel Paese, se solo smettesse di fumare, di drogarsi e di farsi del male da solo.

Auguri caro Veneto.

Se ce l'ho fatta io, puoi farcela anche tu!

venerdì 1 novembre 2013

Elogio di Jessica Fletcher

Non gli pareva vero.

Le budella di Tommaso Pepi, quando si è trovato di fronte su Google +  al post chilometrico in cui demolivo la signora del West etichettandola come liberal chic frantuma-gonadi, sono ribollite peggio dei cotechini precotti da 8 euro. E lo hanno costretto a prorompere con una pia richiesta:



"Faremo". Così ho scritto, trainato dall'entusiasmo, quando mi sono accorto che qualcuno mi aveva fatto il più uno su Google +. E me ne sono accorto solo quattro giorni dopo dato che su Google + c'è meno gente che alle repliche dei film neorealisti nei polverosi cinema d'essai di città.

"Faremo".

No, caro Tommaso. Riprendo le redini di me stesso. Non lo farò.

Se ti aspetti un articolo umoristico, pieno di battutacce sul fatto che Jessica Fletcher abbia fatto più vittime del vaiolo e dell'ebola messe insieme, resterai deluso.
Se desideri che spernacchi la rustica Cabot Cove, cittadina del Maine sull'Atlantico filmata però sulle sponde del Pacifico dall'altra parte dell'America, probabilmente dovresti leggere qualcos'altro.
Se sei in attesa di insulti allo sceriffo papà di Richie Cunningham, al medico che fa più autopsie di vaccini anti-influenzali, mi secca doverti dare questo dispiacere.

Jessica Fletcher è l'unica che è riuscita a mandare al gabbio pure Magnum P.I.

Farò qualcosa di estremamente controcorrente per la cultura internettiana media, e per una volta, andrò incontro alle vecchiette e alle signore di ogni età che ormai conoscono a memoria gli episodi battuta per battuta come le reghezzine snocciolano i testi delle canzoni di Giustino Biberon.

Amo Jessica Fletcher. La adoro.

E no, non sto parlando in generale del telefilm, ma proprio della donna Jessica Fletcher, in gioventù capace di scacciare, da sola, a bordo di una scopa volante, l'avanzata dei nazisti in Inghilterra.


La vera ragione della sconfitta di Hitler.

Primo punto: non è vero che Jessica Fletcher porti sfiga. Sì, nel telefilm avvengono omicidi a nastro, la piccola Cabot Cove è praticamente stata decimata da mogli gelose, colleghi invidiosi, genitori addolorati in cerca di vendetta.

Ma quello che noi profani leggiamo come un affresco quattrocentesco di stampo siciliano "Il Trionfo della Sfiga" per Jessica è il trionfo dell'ingegno. La gente a Cabot Cove si squarta solo perché nel mare di sangue e budella il vascello della Fletcher veleggi verso nuovi orizzonti di gloria.

Particolare de "Il Trionfo della Sfiga". Lo trovate al Palazzo Abatellis, a Palermo.

E' comunque nell'ordine naturale delle cose che alcuni, in particolare donne, vadano pazzi per le disgrazie. E dunque costoro non possono non vedere in Jessica un'eroina, capace di catalizzare i peggio cataclismi su di sé. Ma la compunta signora Fletcher sovrasta queste logiche terrene da voyeurismo del dolore.

A differenza della sua collega di palinsesto Michaela Quinn, Jessica Fletcher non giudica, non critica, non rompe le balle, sebbene sia molto più tradizionalista e "british". Anzi, è proprio quel suo essere "british", quel fare controllato e cortese che rende Jessica avanti anni luce rispetto a tante macchiette femminili del piccolo schermo.

Jessica, quando capita sulla scena del delitto, cioè sei volte alla settimana, riconosce l'autorità precostituita e l'affianca con gentilezza e comprensione. E le forze dell'ordine di ogni angolo d'America e del mondo non solo lo capiscono, ma si sentono pure onorati di poter lavorare assieme a un tale mostro sacro, perché Jessica ostenta la sua superiorità mentale e morale con i fatti, mentre con le parole sottolinea umiltà. E il poliziotto o lo sbirro di turno che non lo capisce, e la ostacola, se ne avrà puntualmente a pentire alla fine dell'episodio.

La felicità per Jessica.

Tutti vorremmo una zia come Jessica Fletcher, se i suoi nipoti e parenti d'ogni ordine e grado non venissero di volta in volta accusati di stupri, omicidi e stragi e non venissero coinvolti nei più orrendi delitti perpetrabili in natura.

Adoro Jessica Fletcher perché percorreva le più tristi pagine della cronaca nera con la sua permanente bionda, le sue chiacchiere di paese, i consigli su come tirare su i fioretti del giardino, se sul tè fosse meglio il latte o il limone e la sua inconfondibile risata finale che preannunciava, argentina, la musichetta di fine episodio.

C'aveva la faccia da vecchia pure da giovane. Qui nel "Ritratto di Dorian Gray".

Ecchissenefrega se nel corso della puntata erano in morti in tredici, fatti a pezzi con un machete e sciolti nell'acido da un folle squilibrato, perché il lieto fine, che ci trainava al TG1 delle 13.30, disegnava con colori pastello la vittoria della gentilezza di una solare vedovella inglese sulle voragini del male umano.


domenica 27 ottobre 2013

2025: operazione speranza.

Dov'eri quando ci siamo lasciati alle spalle il novecento e abbiamo varcato, tutti più o meno ubriachi, con pance piene da far schifo e cappellini buffi il nuovo millennio?

Ok, tecnicamente il nuovo millennio è iniziato alle 00:00 del primo gennaio 2001, ma sono dettagli per secchioni tristi di cui non frega una cippa a nessuno. Il millennio nei cuori di tutti è iniziato un anno prima: arrendiamoci all'evidenza: per il doge Pietro II Orseolo, per Innocenzo III, per Giovanna d'Arco, per Vlad l'Impalatore, per Massimo d'Azeglio e per Enrico Beruschi l'anno era sempre iniziato con il numero 1. Poi, tutto d'un tratto, l'anno è cominciato ad iniziare con il numero 2. E' lì che è arrivato il nuovo millennio.

Su Rai 1, la notte di Capodanno nel 2000, c'era lui. E c'è anche adesso. Forse nulla è cambiato davvero.


Non ricordo molto degli altri capodanni. Ma di quel frangente ho in testa, stampato in modo indelebile, ogni singolo istante.

Eravamo andati dagli zii di Campagna Lupia, nella campagna veneziana, ma per me, 14enne già completamente chiesarolo, basabanchi, ciucciastoe e magnaparticoe, era come casa mia, in quanto Campagna Lupia rientra nel territorio della Diocesi di Padova. Credo sia stato uno degli ultimi happening per la famiglia allargata al completo.

Ricordo i "bisati" ai ferri, attaccati alle estremità con dei chiodi e tagliati in due. Ricordo le 75 mila lire spese da mio papà in petardi. Ricordo soprattutto le tagliatelle al salmone affumicato e al basilico. Ricordo la canzone ascoltata in autoradio, mentre l'Opel Astra di mio papà, raccattata la giunonica zia Luigina all'Arcella, avanzava tra i campi umidi e tra il buio pesto verso la casa della zia Anna: era "Un giorno migliore" dei Lunapop. La prima volta che la sentivo.


"Un giorno migliore" - non mi sono mai piaciuti i Luna Pop, ma questa canzone l'ho sempre adorata.


Cullato da quelle parole, ero davvero convinto che domani sarebbe stato un giorno migliore. Il "secolo crudele" cantato qualche anno prima dai Doc Rock a Sanremo stava ormai esalando gli ultimi respiri. Il futuro non era una parola da pronunciare piena d'angoscia, ma la proiezione di una progressione geometrica del bello del presente. "Oggi stiamo bene? Domani lo staremo di più". "Oggi c'è più pace di ieri? Domani ce ne sarà di più".

Che bella atmosfera si respirava in quei mesi di D'Alema bis. I negozi che aprivano li chiamavano tutti Caffè 2000, Alimentari 2000, Auto 2000, Pompe Funebri 2000. Pareva che da un giorno all'altro avremmo avuto il robot domestico, l'auto volante, il teletrasporto, stipendi da 5 milioni di lire.

Il 2000 era il futuro: gli anni che lo precedevano sono stati stupendi perché proiettati verso di esso. Poi però abbiamo attraversato la soglia. E l'effetto Giacomo Leopardi, quello del Sabato del Villaggio, tanto per intenderci, è piombato su di noi come le sentenze della Cassazione sono piombate sul Governo Letta.

Clicca sull'immagine: ascolterai le prime parole che ho udito nel nuovo secolo.
Su Rai 1 il secondo millennio si è chiuso con Carlo Conti e si è aperto con Karol Wojtyla.

L'11 settembre, il lavoro sempre più difficile, le guerre, il decennio berlusconiano del disimpegno e della chiusura dei recinti, la paura crescente, l'Internet vissuto non come apertura verso gli altri ma come ripiego su sé stessi.

Le belle speranze spazzate via. Il termine futuro che ci fa paura. L'avanzata tecnologica vista come l'appropriarsi di un cellulare un po' più figo e non più come ulteriore liberazione dell'uomo dal suo senso di precarietà, che i teologi chiamano "peccato originale".

Emblema di tutto ciò la morte dello Shuttle e dei progetti di esplorazione spaziale. Non abbiamo più il coraggio di guardare le stelle e di sognare.

Il progetto Constellation, che ci avrebbe riportato sulla Luna e su Marte, non partirà più.
"Houston, abbiamo un problema. Non abbiamo più voglia di sognare".

Allora me ne esco con una soluzione stupida, infantile, che però potrebbe funzionare proprio perché stupida e infantile. Illudiamoci di nuovo, perché solo i pazzi, gli illusi e i sognatori sono capaci di cose grandi. A differenza degli intelligenti, infatti, dispongono dell'arma più forte di tutte. Arma che qui intorno non si trova manco a pagarla oro: la speranza.

Fissiamo una data, e orientiamo la nostra vita in funzione di essa... Inventiamoci un nuovo futuro, dato che il futuro vecchio non ha funzionato... Che ne so, il 2025.

Crediamoci fermamente. Diciamocelo ogni mattina. Abbiamo 11 anni di tempo.


Un 2025 possibile.


Nel 2025 avremo tutti un posto di lavoro stabile e un tetto sopra la testa.
Nel 2025 sarà possibile amare ed essere amati.
Nel 2025 i nostri dubbi più intimi e dolorosi saranno spazzati via dalla luce della verità.
Nel 2025 l'aria che respireremo sarà migliore.
Nel 2025 saremo capaci di divertirci tutti come si divertono i bambini.
Nel 2025 i politici ci serviranno, e non saremo più noi a servire i politici.
Nel 2025 saremo felici di pagare le tasse, perché lo Stato funzionerà, e l'Europa sarà non solo un'istituzione finanziaria.
Nel 2025 le parrocchie saranno il cuore pulsante della Chiesa, i patronati e le chiese avranno sempre le porte aperte anche per i più distanti e dubbiosi. Saranno tutte sempre piene di giovani, veri protagonisti della vita parrocchiale e non più solo forza lavoro di cui i vecchi possono disporre alla cacchio.
Nel 2025 la Chiesa sarà il granaio di speranza per tutta l'umanità.
Nel 2025 l'unica guerra che faremo sarà giocando alla Playstation 7.
Nel 2025 saremo tutti felici.

Ma nel 2025.

giovedì 24 ottobre 2013

Santini non convenzionali: San Mosé l'Etiope

E con questo post, con il quale mi attrarrò le scomuniche di migliaia di vescovi sparsi in tutto il globo, inauguro una rubrichetta dal titolo "Santini non convenzionali". L'agiografia, si sa, è quel genere letterale che racconta, con un'atmosfera un po' ovattata da fiction Lux Vide (stile che tra l'altro adoro, ma questo è un altro discorso), le storie di vita di quelle donne e di quegli uomini che, nel corso dei secoli, si sono guadagnati sul campo una righetta nel martirologio romano, il libro che raccoglie santi, beati e venerabili d'ogni specie.

Il martirologio romano.

Ma cosa sono i Santini non convenzionali? Semplicemente le storie dei santi raccontate come le si racconterebbero fuori dalla sacrestia e dal patronato, lontano dal puzzo d'incenso e dalle spume da 200 lire. Né più, né meno. E così, se ci allontaniamo per un momento dalle faccettine confuse sui santini di merletti, possiamo toccare con mano che i Santi, in fondo in fondo, erano come noi. Peccatori, a volte come noi, impacciati, a volte come noi, capaci di scatti d'ira, a volte, come noi. Tra santi intelligenti e santi stupidi, tra santi ricchi e santi poveri, tra santi giovani e santi anziani è praticamente impossibile non sentirsi un po' rappresentati da questo mare d'umanità. 

San Mosè l'Etiope
III secolo

Intimoriti? Dovreste esserlo. San Mosé l'Etiope non era tipo da berci il the
coi pasticcini nella magione della duchessa di Cambridge tra una partita di bridge e l'altra.

Hide yo kids, hide yo wife. Se volete un santo tipo chierichetto alla Tarcisio di Max Pisu vi conviene cercare altrove. San Mosè il nero - o l'etiope - nato il 330 dopo Cristo, residente in Egitto, non sfigurerebbe come protagonista di un GTA ambientato al Cairo in tarda epoca romana, dove al posto di rubare le macchine freghi i cammelli.

Alto due metri, la sua etnia non gli aveva dato il ritmo nel sangue, ma una prestanza fisica che lo aveva trasformato in una macchina da guerra armata a proteine. Tipo Terry Crews.

Anche Terry Crews diventerà santo, un giorno. Me lo sento.

In giovane età lasciò l'Africa centrale per recarsi in cerca di gloria nel più ricco Egitto. All'epoca non c'era bisogno di permessi di soggiorno, centri di prima accoglienza e menate varie: in poco tempo trovò lavoro da un riccone egiziano. Mansione: tutto fare. E il buon Mosè fece di tutto. Nel senso che iniziò a derubare il suo datore di lavoro sottraendogli l'argenteria, gli elettrodomestici e i soldi nascosti sotto il materasso.

Licenziato in tronco, non si perdette d'animo in quella crisi occupazionale, ma si mise in proprio. Nel senso che si appropriò di tutto quello che aveva sotto tiro. Certo, non è che ti potevi opporre di fronte un Marcantonio di colore capace di stenderti solo con i muscoli del mignolo.

Come per gran parte dei padri del deserto, il culto di San Mosè è diffuso in
modo particolare tra gli Ortodossi. Fortunatamente, però, prima dello strappo del 1054,
la Chiesa era una sola, dunque i santi funzionavano per entrambi. 

Il vescovo Palladio (all'epoca i giornalisti non esistevano, erano i preti e i religiosi che buttavano giù le storie nero su bianco - tipo Famiglia Cristiana), che ne raccontò la vita, ci narra di quella volta che fu sorpreso da un contadino lungo il Nilo mentre cercava di fregargli l'Alfetta (ok, questo non l'aveva scritto, ma rende l'idea). Il contadino però si pentì immediatamente di averlo disturbato mentre già armeggiava coi fili dell'accensione, e alla prima occhiata, scappò via a gambe levate. Palladio - che non era tipo da scrivere fandonie sebbene la deontologia l'abbiano inventata un fracco di anni dopo - ci racconta che Mosé lo inseguì a nuoto per più di un miglio attraversando il Nilo in piena. Tra i denti teneva ferma la spada con cui scotennarlo. Palladio, purtroppo, non ci racconta come andò a finire, ma c'è in Egitto chi afferma di sentire ancora oggi, ogni tanto, alcune eco di grida sul Nilo tipo gatto squartato.

Mosè diede l'avvio a una bella attività in franchising: con decine e decine di sottoposti si divertiva a razziare in lungo il largo in Egitto, che all'epoca l'associazione a delinquere non sapevano manco cosa fosse. Non era un Robin Hood: fregava ai ricchi come fregava ai poveri. E la vita, se la godeva. Palladio, infatti, ci riporta scandalizzato come ai furti seguissero feste, bagordi e baldorie che manco Hugh Hefner quando ancora non lo tenevano in vita artificialmente.

Sebbene la rubrica si chiami "Santini non convenzionali", sempre di santini si tratta. E così, nella vita di Mosé, qualcosa di bello successe. Non fu una folgorazione modello San Paolo, ma il lento sorgere  della consapevolezza che sgozzare barcaioli e intrattenersi con battone da fiera agricola, alla lunga non soddisfi proprio un bel nulla.

Non sapete cosa regalarmi? Regalatemi un'icona.


Con la forza e la decisione con cui gridava "Questa è una rapina, motherfucker!" si lasciò alle spalle la vita di prima ed entrò in un monastero, che le cose all'epoca le si facevano seriamente o non le si facevano. E come prima c'aveva i complici nel male, poi trovò dei complici del bene, convertendo alcuni dei suoi più vecchi compagni di merende.

Pregava, lavorava, se ne stava tranquillo. Stile gigante buono alla Bud Spencer.

Ma la vita vecchia, per tutti, ogni tanto fa a cazzotti con quella nuova. In tutti i sensi. E così, un giorno, nel suo monastero, irruppero quattro scappati di casa con la smania di fare i rapinatori. E con la sfiga tipica dei non professionisti, come prima cella decisero di entrare proprio in quella dove il buon Mosè era intento a pregare. Palladio non osa dirci cosa successe davvero: ci riporta solo che colleghi monaci videro Mosè rrivare negli spazi comuni con i quattro rapinatori legati e resi inoffensivi sulle spalle. Tutti e quattro insieme. Leggeri "come sacchi di paglia", spiega Palladio, che con le analogie non era poi così bravo. Neanche a dirlo, i ladri si convertirono immediatamente.

Ma non fu dimenticare la violenza la prova più dura da affrontare per Mosè il nero, ma la lussuria. Come a dire, citando la pubblicità delle Pringles, once you pop, you can't stop. Eppure, con l'aiuto del vecchio monaco Isidoro, Mosé riesce a prendere a cazzotti Satana come manco Mohammed Alì. Palladio ci riporta la sua spocchia: "Arrivò al punto che temeva il demonio meno di quanto noi temiamo le mosche". Beccati questo, Satana!

Notizia interessante: San Mosè l'Etiope è particolarmente venerato dalle comunità
cristiane afroamericane di religione ortodossa. Incredibile! Non l'avrei mai detto.


Prima di morire, nel 405, all'età di 75 anni, divenne anche prete, lasciando settanta discepoli e ammiratori a continuare la sua opera in quel di Scete, nell'area desertica dell'Egitto.

Il martirologio romano si bulla: da "ladrone insigne" il buon Mosè si è trasformato in "insigne anacoreta". La Chiesa lo ricorda il 18 giugno. Dunque, la prossima volta che vi troverete di fronte a un gangsta patentato, a un criminale senza scrupoli, portare rispetto. Anche lui potrebbe un giorno diventare santo.

Ma già che ci siete, impegnatevi anche voi! (E con questo, ovviamente, non vi sto invitando a diventare dei banditi del quarto secolo).

mercoledì 23 ottobre 2013

Le mirabolanti avventure di una simpatica impicciona ottocentesca tra saloon, prostituzione e superiorità morale.


Odio e amo. Per quale motivo io lo faccia, forse ti chiederai.
Non lo so, ma sento che accade, e mi tormento.

Catullo


"La Signora del West" non è altro che l'orrenda traduzione italiana del telefilm "Dr. Quinn - Medicine Woman", trasmesso ininterrottamente da Rai 1 per decenni in alternanza alla simpatica calamità naturale ambulante di Jessica Fletcher prima che all'ombra del Cavallo di Viale Mazzini qualcuno si accorgesse che una popolana alle prese con i fornelli e con l'avanzare degli anni in effetti non era poi un'idea così malvagia.

Anche dopo vent'anni il dottor Quinn continua a giudicarti e guardarti con disprezzo.

"La Signora del West", ora di nuovo in replica il pomeriggio su Rai 3 prima dei documentari sui voli dei cormorani di Geo & Geo, racconta le vicende di Michaela Queen, dottoressa di Boston che nel 1867 diventa un'improbabile eroina del Far West dopo il suo trasferimento, da parte della mutua, a Colorado Springs, villaggio che sorge nel mezzo del deserto dove vive un intero campionario di comparse degli Spaghetti Western e della zona nord di Gardaland.

Come Catullo, "La Signora del West" o lo odi o lo ami. Oppure, più raramente, come nel mio caso, lo odi e lo ami insieme.

Il punto più alto della serie. Il crossover con Fran Drescher - Tata Francesca.

Lo ami perché è tecnicamente perfetto. Siamo sì lontani dai serial della fine del decennio 2000, dai ritmi di 24 alle atmosfere di Lost. Ed è sì un prodotto per famiglie - anzi, e lo diremo più tardi - del peggior tipo di famiglie, quelle americane. Ma è fatto dannatamente bene. Alterna a una fotografia di tutto rispetto una scenografia curata nei minimi dettagli. Non siamo in teatri di posa, non si respira l'atmosfera di cartongesso tipica dei prodotti TV di quegli anni. Colorando Springs è vera e viva, ti appare con tutti i crismi della realtà.

Orson Bean, un mostro sacro in America. Ne "La Signora del West" era Loren,il burbero proprietario dell'emporio. La vera voce della ragione di Colorado Springs.

Puoi camminare tra le sue strade polverose e piene di escrementi di cavalli e riconoscere i volti uno per uno. Sebbene siano stereotipati come l'inglese e il francese delle barzellette, i personaggi di supporto sono ben definiti e rappresentati da attori di tutto talento. Dal sindaco-barbiere alcolizzato al proprietario dell'emporio finto-burbero, dall'ilare gestore del saloon-bordello al reverendo copia sputata del Jeremy Irons di "Mission", "La Signora del West" è forse l'unico esempio degli anni '90, assieme alla Springfield simpsoniana, di città televisiva dove perdersi, fare quattro chiacchiere al bar, sentire pettegolezzi e appassionarsi degli intrecci. Le sei stagioni del telefilm sono poi un tuffo nella storia americana senza precedenti: la questione indiana, l'arrivo della ferrovia, il ruolo della donna, armi e pena di morte. C'è tutto. Persino la trasferta di rito a Washington dove lo spettatore anche meno acculturato si ritrova a stringere la mano a Ulysses Grant.

Il telegrafista, Horace. In italiano, Orazio. Uguale in tutto e per tutto
ad Orazio, il cavallo antropomorfo amico di Topolino. E come Orazio
ha sposato una vacca, Clarabella, anche Orazio sposa una prostituta
del Saloon di Hank. Nelle ultime serie cade in una seria depressione, ma
a quel punto di lui non gliene fregava più niente a nessuno.

Come la si ama, trovo impossibile anche non odiare "La Signora del West". Farsi venire un chilo di bile nera e scagliare il telecomando pronunciando in pochi millesimi di secondo parole da scomunica diretta.

Perché "La Signora del West", in quegli anni a cavallo della metà degli anni '90, è spiccatamente un prodotto di propaganda. E della propaganda più becera. Mi spiego meglio.

Dopo vent'anni è rimasta uguale. Quando morirà non la cremeranno, la ricicleranno. Assieme
a duecento tappi di plastica ci realizzeranno una sedia a rotelle da donare ai disabili africani.

Michaela Queen, infatti, è il simbolo di donna emancipata dell'East Side (viene infatti da Boston) che si avventura a suo rischio e pericolo nel più profondo e selvaggio West. Simbolo estremo dell'ideologia liberal di stampo clintoniano, si è rivestita di una missione educatrice e civilizzatrice nei confronti dei suoi nuovi compaesani, e dunque, di riflesso, alla casalinga di Wichita e al contadino di Tyler che la seguono, settimana dopo settimana, in TV. Michaela Queen (Jane Seymour) è una fondamentalista: parte in quarta e non la ferma più nessuno. Certo, le sue cause sono riconosciute universalmente come buone, al giorno d'oggi: è lei che libera alcune prostitute di Hank, è lei che lotta contro il Ku Klux Klan che vuole impiccare il maniscalco di colore, è lei che lotta per i diritti degli immigrati svedesi ed è sempre lei che cerca di nobilitare in quel paese di cercatori d'oro, ladri di bestiame, prostitute e avventurieri il ruolo della donna.

Lei, lei, lei. Sempre lei.

Lei che ha il suo boytoy d'ordinanza, il succube mezzoselvaggio Sally (interpretato da un taciturno Joe Lando) che pare uscito dalla copertina di un romanzo erotico per donne. Lei che plasma a sua immagine e somiglianza i figli adottivi - a partire da Brian, il piccolo biondino, l'emblema del bravo bimbo americano, che ho sempre chiamato come "Il Merdina". Inutile come una lapide a Pasqua.

Il Merdina in tutta la sua gloria. Dopo aver fatto i compiti, è pronto per la merendina. Poi aiuterà
le vecchiette ad attraversare la strada. L'anti-Bart Simpson per antonomasia.

Michaela Queen è un'apostola solitaria. E' l'Oprah Wimphrey dei cowboy.

E non puoi non sognare che uno dei tanti banditi da spaghetti western alla Mario Brega la rapisca, la leghi, la carichi sul cavallo e la posi delicatamente sulle rotaie del treno a vapore pochi minuti prima del passaggio del diretto Denver-Colorado Springs.

Perché Michaela Queen è l'apoteosi della rompicoglioni. Non per le idee che ha, ma per come le propone. In lei non c'è dialogo, ma la spocchia tipica di una cultura liberal che riemerge spavaldo dopo dodici anni di cultura Raeganiana dominante, che si reca dai redneck per offrire loro, come un dono dal cielo, l'unica verità possibile. La sua. Michaela Queen è la personificazione della spocchia e di un senso di superiorità che contribuirono non poco a far sprofondare il paese nel dominio dei Bush.

Impossibile, dunque, nel paesino del Far West dominato dalla dittatura dell'illuminata spaccamaroni, non fare il tifo per i retrogradi, ma intellettualmente onesti, ladri di bestiame.


L'allegra famigliola al completo. Finché tifo non vi separi.

Per non dimenticare

martedì 22 ottobre 2013

San Giovanni Paolo II - "IL" Papa

Oggi è San Giovanni Paolo II.
Quel grosso corpo pallido,
vestito di rosso, non ci pareva
nemmeno lui. Quanta emozione,
quanto dolore, in quei giorni d'aprile.

Durante tutta l'agonia nell'inverno-primavera 2005, tra ricoveri, ospedalizzazioni, tracheotomie e bollettini medici ero sicuro: "Tanto non muore". Per i nati negli anni '80 - e anche per molti dei tardi anni '70 - Giovanni Paolo II era l'unico volto possibile di Papa.

L'avere un Papa italiano era da noi percepita come eventualità remota, tipo, che ne so, un presidente degli Stati Uniti di colore.

L'unico accento con cui un Papa poteva parlare era il polacco.

Il doppio nome era per noi l'assoluta normalità e non lo stravolgimento delle regole del gioco voluto, pochi anni prima, da un timido patriarca di Venezia che la storia ricorderà come un gigante.

Giovanni Paolo II era il Papa, eterno, immutabile, gigantesco Papa.

Quel 2 aprile 2005 è stato per noi uno shock.

Come se la luna si fosse spenta per sempre.

Proviamo a guardare su Youtube
alcuni video di lui, verso la fine.
Ormai ci siamo scordati di quanto
fosse ridotto male, tra il 2002 e il 2005.






Non c'eravamo arrivati preparati, contrariamente a quanto forse pensavamo di essere, avendo visto per anni il nostro Papa soffrire sempre di più, incapace di muoversi e, alla fine, persino di parlare. E quel 19 aprile 2005 vedere un altro vestito di bianco affacciarsi dalla Loggia delle Benedizioni ci ha ferito.

Ci pareva un usurpatore.

Di Papa ce ne poteva essere solo uno: e il suo nome era Giovanni Paolo. Pure la scelta del nome Benedetto ci pareva un insulto: perché non Giovanni Paolo III? Eravamo sicuri che ormai tutti i Papi si sarebbero potuti chiamare solo Giovanni Paolo, dopo l'impronta storica data dal polacco alla cattedra di Pietro.

Benedetto, il Papa dell'Amore
Ma a distanza di quasi nove anni da quel giorno, carissimo Benedetto, ti dobbiamo chiedere scusa.

Nel tuo magistero ci hai parlato di Amore, essenza stessa di Dio e persino di ogni relazione all'interno della società. E ci accorgiamo, forse, solo adesso, che Giovanni Paolo II non è stato altro che un anello di una lunga catena, iniziata con Pietro e che continuerà per sempre, una catena che rinsalda il legame tra Cristo e l'umanità.

Eppure, mi perdoneranno i quattro lettori, quell'anello, a noi ragazzi della generazione Y, ci pare un po' più brillante degli altri. E continua a brillare, anche se la sua luce è avvolta dall'atmosfera ovattata degli altari.