sabato 9 novembre 2013

O Europa o morte! A caldo, da Openfield.

Una festa di compleanno triste.

E' questa l'immagine che mi porto a casa da Openfield di oggi, e, in particolare, dalla tavola rotonda nella quale Pierluigi Castagnetti e il senatore Gabriele Albertini, entrambi con una lunga esperienza da parlamentari europei erano chiamati a tracciare un profilo dell'Europa di domani. E soprattutto come arrivarci.

Per festa di compleanno triste intendo quei mesti genetliaci di alcune persone, che invece di gioire per il futuro che hanno di fronte, si lamentano delle sfighe del presente e degli errori del passato. Le candeline sono la condanna di un tempo corso troppo in fretta che ricorda, senza pietà, tutte le cose non fatte, o peggio ancora, fatte male.

Non hanno detto nulla di sbagliato. Sognavo però di sognare, non solo di fare i
conti con le disgrazie del presente.

Ringrazio Castagnetti e Albertini per le precise indicazioni fornite. Li ringrazio per avere messo il dito nella piaga di un'Europa bloccata sul nascere, quando si doveva cominciare a giocare sul serio, a Nizza, nel 2000, dalla paura e dalla codardia dei capi di governo. Di un'Europa incapace di incidere, che ha sì una moneta unica da gestire ma che non ha un vero e proprio governo che detti una linea economica. Di un'Europa giocoforza germanocentrica dopo l'allargamento, in cui Frau Merkel aumenta di mese in mese la sua influenza come il bulletto in piena pubertà che diventa sempre più il terrore dei bimbi gracilini nei giardinetti pubblici.

Albertini e Castagnetti - ma soprattutto Castagnetti - hanno prefigurato stasera il disastro dell'Unione continentale in occasione delle prossime elezioni europee. Il rischio concreto è che gli anti-europeisti posino in gran numero le loro terga sugli scranni di Bruxelles. E che il sogno di Adenauer, Schuman e De Gasperi naufraghi definitivamente tra gli scogli delle scuregge e dei vaffanculo di Beppe Grillo e della faccia da mr. Bean di Nigel Farage, condannandoci, di fatto, alla marginalità in un mondo sempre più globalizzato, a farci fare il sederino a tarallo dalle economie emergenti dei BRICKS.

Quando ero bimbetto l'europeismo lo si costruiva anche con le canzoncine della Cristina d'Avena. Intrattenimento costruttivo. E adesso? Cliccate per sentire la voce della D'Avena quand'era ancora mezzosoprano e non contralto andante.

Il magone mi è sorto spontaneo come una domanda di Lubrano. Mi è passata, nel mare di mestizia, pure la voglia di farmi fare da Albertini un'imitazione personalizzata di Paolo VI come fa di solito a quei simpatici senzadio di Cruciani e Parenzo.

Se non mi sono dato fuoco in uno dei corridoi della Facoltà Teologica è soprattutto grazie alle parole di speranza udite da mons. Aldo Giordano, osservatore della Santa Sede presso il Consiglio d'Europa uscente e nuovo nunzio apostolico in Venezuela, al posto di Parolin, come vescovo, entrante. Nel suo nuovo libro: "Un'altra Europa è possibile", sintetizzato per l'auditorio, ha delineato come la Chiesa può incontrare e risvegliare l'Europa proprio nel suo bisogno di Dio, sintetizzato nel "Dio è morto" di nietzschana memoria. Un'Europa che, dopo essere stata scombussolata dalla crisi come una vecchietta sulle montagne russe di Gardaland, ha perso la sua spocchia e la sua sboronaggine ed è di nuovo capace di ascoltare e di mettersi in ricerca, illuminata da un Dio che muore non solo figuratamente ma davvero. E risorge per noi, con noi.

Al suo confronto, Albertini, e in particolare Castagnetti, mi sono sembrati delle prefiche siciliane che si strappano i capelli (chiedo scusa all'ex sindaco di Milano per l'esempio infelice) dietro un carro funebre, trainato da splendidi cavalli, con dentro la cassa da morto contenente l'Europa.

Mons. Aldo Giordano. Personalmente, la mia scoperta di oggi.

Ripeto: li ringrazio per le loro parole. Loro hanno fatto la pars denstruens, io qui, delirando col mio stile da blogger giovine e aggressivo, propongo la pars construens. Che leggerò solo io, ma, che me ne cale?

Il buon Castagnetti ha individuato i due momenti di massimo splendore per l'europeismo nella fine della seconda guerra mondiale, con lo spirito di Ventotene, che portò al trattato di Roma, e nel crollo del muro di Berlino, con l'asse Kohl e Mitterand, che portò all'Euro. Due momenti critici, tremendi, in cui l'Europa ha fatto i conti davvero sul perché deve stare insieme, coi piedi nudi posati ancora sui cocci taglienti della follia nazista e comunista. Abbiamo davvero bisogno di superare una tragedia, un lutto, una disgrazia per unirci, volerci bene e capire che è fondamentale stare insieme? Cosa ci serve? Una pandemia? Un'apocalisse zombie? Un'invasione aliena?

No, ma, seriamente, ve lo immaginate un Indipendence Day con Barroso che fa
il celebre discorso del presidente Whitmore? L'unico in Europa con il carisma
necessario per farlo è vestito di bianco ed è, formalmente, di nazionalità argentina.

La proposta la faccio io: rendiamo il superamento di questa tremenda crisi il rito di iniziazione, il mito fondativo della nuova Europa federale, degli Stati Uniti d'Europa. Facciamolo da cristiani, facciamolo insieme. Proponiamo una visione, un sogno, nel silenzio del cuore e nel frastuono delle parole vuote che stiamo attraversando. Noi cristiani ce l'abbiamo: è la stessa speranza che ci anima da duemila anni. "Se Cristo ha vinto la morte - ricordava, in un tripudio di gioia e di carisma pastorale, un meraviglioso mons. Giordano - ci aiuterà pure nella crisi economica, nella gestione dell'immigrazione e negli altri problemi che abbiamo come Europa".

Io sono ottimista, testardamente ottimista, dannatamente ottimista: anche se la tergona non coitabile e qualche mesto politicante riuscirà a farci disinnamorare dell'Europa, anche se da giugno gli euroscettici non solo dovessero ottenere un bel risultato, ma addirittura divenir preponderanti, e dovremmo assistere ai movimenti intestinali di quello che faceva la pubblicità dello yogurt Yomo anche a Strasburgo, l'Europa non finirà. Non torneremo a stampare le lire, ad esibire il passaporto a Ventimiglia o a sparacchiarci in una trincea sulla linea Maginot per il controllo delle miniere dell'Alsazia e della Lorena.

L'Europa deve rilegittimarsi, ridarsi senso, anche quando le radici dei ricordi iniziano
ad asciugarsi dal sangue versato nelle due guerre mondiali. Non basta però
ricordare gli orrori prima dell'Europa unita e i 70 anni di pace che l'Unione ci ha regalato.
Bisogna, a mio avviso, trovare nuovi miti fondativi.
Perché l'Europa è un processo avviato, non si può fermare. Dovessimo attendere venti, trenta, quarant'anni, gli Stati Uniti d'Europa saranno realtà. Perché la storia va lì, in quella direzione, e non si può cambiare. Da Cesare a Carlo Magno, da Napoleone a Hitler, da Adenauer al professor Monti, l'idea di Europa (e le sue orrende deviazioni) non ci abbandona. E nel mondo dove le distanze sono ormai zero, per contare o siamo uniti o non ci siamo. O Europa o morte.

Forse abbiamo solo bisogno della visione politica di qualcuno capace di vedere due centimetri al di là del suo naso. Aspettiamo, ne varrà la pena.

Prima o poi, qualche politicante illuminato dalla scaltrezza e dallo Spirito con la S maiuscola si rialzerà dalla polvere e dalle macerie lasciate dai governi egoisti e dagli euroscettici di pancia. Un raggio di luce lo illuminerà ancor di più, e le speranze di tutti si riaccenderanno di colpo, fortissime, come destatesi da un sonno durato secoli, come l'alba che squarcia il buio orizzonte. Quel qualcuno non farà cose straordinarie. Sarà semplicemente, come Carlo V, come Shumann, come Kohl, come Prodi, come Mitterrand, l'ennesima pedina della storia, che, sotto dettatura, farà il suo compitino. Spalancandoci le porte del futuro.


P.S.

Se avete davvero compiuto l'impresa di arrivare alla fine di questo post, lasciatemi un commentino, grazie.

giovedì 7 novembre 2013

Segni di croce in motorino

Devono avermi davvero traumatizzato da bambino.

Nei primi anni di vita cosciente, infatti, ho interiorizzato gran parte dei contenuti relativi alla fede cristiana come norme da rispettare, preghiere da dire, gesti da fare. Il vero Vangelo l'ho conosciuto molto più tardi, nel silenzio della grotta sul Gave, nella sofferenza di Giovanni Paolo II, nelle parole di Benedetto sulla ricerca dei magi nella spianata di Marienfeld a Colonia, nell'infinita misericordia di chi supera di gran lunga con l'amore la nostra miseria.

Farisei d'annata, cristiani che se Cristo tornasse in terra fisicamente non lo
crocifiggerebbero più, dato che la crocifissione è passata di moda.
Si limiterebbero a fargli fare un giretto nella macchina del fango. 
Della vecchia religione legalistica e farisaica ho conservato però parecchio. L'ho fatto perché molte pratiche, una volta riorientate, sono comunque utili e preziose per una vita interiore che si rispetti.

Ho mantenuto l'abitudine di farmi sempre il segno della croce di fronte a chiese, capitelli, immagini sacre. Così, sovrappensiero. Anche in bici e in motorino.

Nei miei tragitti in motorino casa-lavoro c'ho i miei posti "segno di croce". Ormai naturali, marchiati a fuoco nel mio GPS cerebrale. Tra questi la basilica del Santo, il Duomo di Padova, la statua di Pio X.

Questa foto l'ho scattata io, il 17 marzo del 2011, giorno in cui
l'Italia unita spegneva le sue prime 150 candeline. Qualche
simpaticone aveva pensato bene di festeggiare la ricorrenza
macchiando con la vernice verde il municipio. Il
sindaco Rinuncini mi commentò così, per il mio pezzo sul
Mattino : "Si sono dimenticati il bianco e il rosso per fare il
tricolore". Nella foto si nota, da solo, a sinistra, mio papà, mentre
il primo da sinistra nel gruppetto è il compianto Dino Moro,
consigliere mancato pochi mesi fa.
Mi sono accorto, però, recentemente, che mi faccio, senza volere, il segno della croce anche di fronte al Municipio. Inizialmente è stato uno shock.

"Perché richiamo la dimensione sacra di fronte al luogo in cui entro per carpire informazioni, aspettare il sindaco, scherzare con quel zuzzurellone di Maurizio della segreteria e importunare qualche povero impiegato degli uffici tecnici?".

Poi mi sono dato una spiegazione.

Trono e altare. Le due spade. Il rapporto tra mondo sacro e mondo politico è antichissimo: ci sarà una ragione.

Farsi il segno della croce di fronte al luogo per eccellenza della politica e dell'amministrazione locale. Non solo è giusto, ma è sacrosanto.

Carlo Magno.
Derido i nostalgici di partiti politici di vent'anni fa.
E io ammiro un casino un politico di 1200 e passa
anni fa. Tant'è. Ma il buon Karl der Große è il vero
padre del nostro Occidente. Sovrano giusto
e illuminato, ha dato un boost all'Europa,
aiutandola a "snebbiarsi" dai fumi dell'Alto
Medioevo. E la fede, ovviamente, è stata per
lui fondamentale. La Chiesa lo venera come
Beato, checché se ne ignori la devozione. 
Ogni potere deriva da Dio. Ma soprattutto, la politica è l'arte non tanto del compromesso, quanto del bene comune. E' la massima opera di carità. E' la presa di responsabilità assoluta della creazione di Dio. E può essere animata dalla carità stessa, come spiega Benedetto XVI nella "Caritas in Veritate". E la carità, l'amore, è Dio stesso, come ci ricorda sempre il buon Benedetto XVI - del quale sentiremo sempre più la nostalgia nonostante quel sole splendente che è Francesco - nella sua "Deus Caritas Est".

Quel segno della croce, fatto in velocità in motorino in Viale del Lavoro, con l'asfalto irregolare che ti fa sussultare su e giù come i fagioli dentro la pentola a pressione, non è solo preghiera di raccomandazione. Ma è anche, e soprattutto, il riconoscere che il sacro non ha confini.

E' sacro il lavoro che c'è ed è sacro il lavoro che manca. E' sacro lo sport. E' sacra la musica, anche la musica che non è sacra. E' sacra la sessualità. E' sacro il cibo. Ed è sacro l'impegno politico.

E i "consacratori" di tutte queste dimensioni siamo noi: sacerdoti, re e profeti. Anche con un segno di croce in motorino.

domenica 3 novembre 2013

"Ci pensa Rocco". No, guardi, grazie, facciamo da soli.

Nella tragedia della Tv ormai priva di idee, assistiamo nell'ultimo periodo alla proliferazione di due generi soltanto: i talk show politici e la Tv verità.

Per i primi la ricetta è facilissima: prendi dei giornalisti che hai assunto a tempo indeterminato. Ti costano uguale sia che lavorino tre ore per realizzare un servizio di cinque minuti intervistando il premio Nobel Ciccio Pistacchio o documentando la crisi della fabbrica di formaggio della sora Gina, sia che rimangano fermi a fare domande prestampante, limitandosi ogni tanto a scuotere la testa mentre, seduti su comode poltrone e ripresi da qualche telecamera fissa, il sottosegretario X, il vice-portaborse dell'onorevole Y del partito Z, il notista politico della rivista A, la starlette B e il polemista dalla parolaccia pronta C dubitano a vicenda della moralità delle mamme altrui parlando di contraffazioni alimentari, tasse sulla prima casa che cambiano nome più volte di Snoop Dog e della farfallina di Belen.


In America c'avranno pure tanto trash. Ma hanno anche 'sto omino qui, Stephen Colbert.
Dio lo benedica.

Il risultato sono parole, parole, parole. Parole capaci di coprire pure i - pochissimi - fatti che ci sono rimasti. Le agenzie rilanciano le dichiarazioni, le dichiarazioni diventano fatti, i fatti spariscono. Tutto è relativo, nulla di certo esiste. E il caro Benedetto XVI, nel suo convento di clausura in Vaticano, che ci aveva avvertito della dittatura del relativismo, ci guarda da distante, sospirando e scuotendo il volto, verso una nazione dove pure le cifre, i dati e i fatti diventano relativi.

Le Tv puntano sulla quantità, perché, in tempi di crisi...




L'altro genere è quello della Tv verità.
E anche per questi, la ricetta è - apparentemente - facile. Prendi una troupe e segui qualcuno.

I migliori sono quelli di Discovery, History e tanti altri "channel". Telecamere fisse su gente che lavora. Allora abbiamo il documentario sui boscaioli dell'Oregon, sui pescatori di granchi dell'Alaska, sui camionisti dell'Alaska, sui cercatori d'oro dell'Alaska, perché ormai l'Alaska è una succursale di Los Angeles quanto a produzione di intrattenimento. E poi abbiamo i simpaticissimi adattatori italiani per i quali ogni titolo deve contenere necessariamente la parola Affari.

Affari di famiglia, Fratelli in Affari, Affari Sporchi, Affari di frontiera, Affari a tutti i costi, Affari al buio, Affari qua, Affari là, che ti vorrebbe voglia di afferrare un affare da un affarista, perché, se non afferrano, gli afferri gli affari. E non sarebbe un grande affare.

Il protagonista di Affari di Famiglia. "La Sacra Sindone? Mmhh. C'è poco mercato. Ti do 100 dollari".

E' bellissimo. Un tempo, negli anni '80, la gente lavorava tutto il giorno poi andava a casa a vedere, in Tv gente che non faceva nulla e si lamentava perché essi non lavoravano. Ora invece, che non lavora più nessuno, la gente passa tutto il giorno davanti alla Tv a vedere gente che lavora e si lamenta perché quelli lavorano e loro no.

Comunque, questo giramento di format e affari colpisce anche le - poche - produzioni italiane, che puntavano molto più su un altro format. Quello del tipo bravo, famoso, esperto che ti viene in casa per risolverti un problema angosciante che t'attanaglia la vita domestica.

C'era il messicano che veniva ad insegnarti a tenere a bada il cagnolino. Ci sono le vecchiette con fare nazista, quelle della pubblicità della cioccolata, che ti insegnano a tenere a bada i marmocchi distruggendoli psicologicamente. Ci sono quelli di Real Time che ti risistemano il tavolino, il guardaroba, la casa stessa.

E, adesso, c'è Rocco.

Rocco sbarca sulla Tv generalista. Magari la volta dopo a farlo sarà Jason, quello dei film horror. 

Sì, Rocco Siffredi, il famoso pornoattore, uno dei pochi a superare la breccia che separa l'intrattenimento per adulti (e per adulti intendiamo adolescenti di ogni età che devono ancora crescere per davvero) da quello dei media generalisti. Noto anche a chi la pornografia non la segue. Sì, persone così esistono, e sono molto più numerose di quello che l'opinione pubblica decadente afferma, mentendo come al suo solito.

Insomma, in questo format per famiglie del canale Cielo (vetrina free dell'impero Sky di Murdoch) il buon Rocco va casa per casa, tipo testimone di Geova, per risolvere problemi di coppia. Il suo compito sarà quello di insegnare ai coniugi Brambilla, nei vortici della crisi del settimo anno, non tanto come fare all'amore (mi piace 'sta formula), quanto a ritessere un vero rapporto di coppia, ad amarsi di nuovo, a coccolarsi, a vedersi preziosi l'uno con l'altro. Rocco, infatti, secondo i geni che hanno curato la conferenza stampa di presentazione dell'evento, sarebbe un maestro dell'amore - ripeto, maestro dell'amore - che tutto il mondo ci invidia.


No comment.

Mi immagino già gli stessi autori che faranno un reality dove un gruppo di obesi a livello terminale entrano in una fattoria per dimagrire aiutati dall'esperto Giuliano Ferrara, o un altro dove alcune coppie di tipi incazzosi come iene selvatiche ricevono lezioni di calma da parte del serafico Vittorio Sgarbi.

Siamo lì.

Non vi farò la supercazzola della società decadente, dove i valori di una volta ormai non esistono più e del si stava meglio quando si stava peggio.

L'intera storia dell'umanità è un susseguirsi di miglioramenti e peggioramenti, dove i costumi variano a fasi cicliche.

Ma di fronte a bestemmie così grosse ovviamente non ci si può che inalberare.

Che ha fatto il signor Siffredi per essere considerato un "maestro dell'amore"?

"Tra le meravigliose invenzioni tecniche che, soprattutto nel nostro tempo,
l'ingegno umano è riuscito, con l'aiuto di Dio, a trarre dal creato,
la Chiesa accoglie e segue con particolare sollecitudine[...]
la stampa, il cinema, la radio, la televisione e simili.
A ragione quindi essi possono essere chiamati: strumenti di comunicazione sociale."
Inter Mirifica
(Concilio Vaticano II)

(Il contrasto tra immagine e testo è voluto).

Nulla, semplicemente copulare di fronte a una telecamera quasi tutti i giorni negli ultimi trent'anni con migliaia di donne di ogni tipo e di ogni età (a volte pure uomini, ho letto), in ogni modo e per ogni apparente motivo. Gli basta questo per essere considerato un "maestro dell'amore"? E di quale amore parliamo?

Non tirerò fuori la Deus Caritas Est, per carità. Non mi nasconderò dietro al Magistero come il ragazzino occhialuto e timido si nasconde dai bulli dietro all'amico alto un metro e novanta che gioca a rugby.

Mi appiglierò al senso comune.

E questo senso comune ci grida a tutti - a tutti - che un conto sono le prestazioni atletiche delle quali il signor Siffredi certo non latita, un conto è l'amore. Quello vero. Che non si insegna. Ma si ascolta. Si segue. Si abbraccia.

Il signor Siffredi che insegna l'amore è come il signor Pacciani che insegna la non violenza.

Lezioni d'amore? Invitate me, a casa vostra, care coppie in difficoltà. Vi metto su
i 26 episodi di Conan Ragazzo del Futuro. Non si danno manco mezzo bacetto,
ma di Amore vi insegneranno più Conan e Lana di tutta la filmografia del signor Siffredi.

Anche il più accanito consumatore di pornografia non desidererebbe che la figlia - che non avrà mai in quanto accanito consumatore di pornografia - seguisse le orme di Cicciolina o Moana Pozzi. Perché il sesso può essere una delle cose più belle di questo mondo, ma i signori pornografi lo hanno ridotto a merce. Hanno distrutto l'eros derubricandolo ad oggetto di consumo. Lo hanno svuotato, come una zucca di Halloween, scavata della polpa per ridurla a uno scheletro che sorride spettralmente.

E no, non resterò qui a dirvi che la pornografia fa male, che il mondo della pornografia è marcio e chi guarda pornografia si riduce a una larva d'uomo e di donna.

Semplicemente me ne starò in piedi bello calmo, cartello in mano, nella piazza Tienanmen dei media italiani, mentre i carri armati della cultura del nulla avanzano di qualche altro metro.

sabato 2 novembre 2013

A tre anni dalla grande alluvione: strani parallelismi tra l'incuria di sé e l'incuria del territorio

Mi piace fare dei salti indietro nel tempo.

Rivedermi, negli anniversari, e pensare dov'ero, che stavo facendo, cosa indossavo, a che cosa pensavo.

E così mi sovviene che tre anni fa, in questo momento esatto, ero seduto alla scrivania dell'assessore Adriano Cappuzzo. Sotto le dita lo stesso computer, gli stessi tasti che sto pestando adesso.

Di fronte a me Fabiana Pesci - anche lei del Mattino. Di fianco a lei Giovanni Viafora - del Corriere del Veneto.

Tutti impegnati a condensare, ospitati in quel micro-ufficio, chi in più chi in meno righe, l'immane dramma di cui eravamo stati testimoni privilegiati. L'alluvione del 2 novembre 2010: l'argine squarciato dalla pressione del Bacchiglione, durante la notte, all'altezza della discarica. Milioni di tonnellate d'acqua che si riversavano per la campagna. L'acqua che saliva, pian, piano, contro la gravità, fino a lambire il Municipio. Poi, nel pomeriggio, l'acqua che trovava come farsi strada verso sud, inghiottendo prima Casalserugo e poi Bovolenta. Le case divorate dall'acqua e dal fango. E poi, dalla miseria più nera.

Mattina del 2 novembre 2010. Sul forum che frequento mi hanno irriso per settimane solo
per quel mio essere comparso su un telegiornale nazionale. In realtà ero nell'angoscia più nera. 


Ricordo gli anziani in carrozzina in attesa nel salone del municipio, i volontari che prendevano ferie per star vicino agli alluvionati, la giovane coppia, con lei incinta, venuta ad occupare il suo nido d'amore solo il giorno prima che il fango lo rovinasse irrimediabilmente.

Non scendo nei particolari, anche perché i particolari, anno dopo anno, in occasione degli anniversari, sono stati sviscerati e riportati su carta, sul web, sulle immagini delle Tv, prima che l'oblio riducesse pian piano i loro spazi fino quasi a scomparire, in attesa che tragedie come queste abbiano a ripetersi. Prima o poi.

Le scarpe impiastrate di fango, il corpaccione da 140 kg (più di 40 chili in più di adesso) affaticato e stremato, il giaccone sgualcito inumidito per il sudore da dentro e per la pioggia da fuori.

Scrivevo per il Mattino da ventitré giorni. Troppo poco per capire come affrontare un disastro che anche colleghi ben più anziani avevano timore di approcciare. Ma nel cuore, un pensiero: "Se avesse rotto un poco prima, o addirittura a Roncaglia, dietro casa mia, avremmo avuto decine di morti". E il panico.

Impossibile descrivere come ci si sente di fronte al trionfo schiacciante delle forze della natura
sopra il dominio umano. Una ribellione che non si può schiacciare.

Abbiamo smesso di considerare la natura, il cambio delle stagioni. Abbiamo iniziato ad annullare l'estate coi condizionatori e l'inverno coi termosifoni, ignorando la possibilità, che ne so, di indossare un maglione invece di alzare il termostato. Abbiamo smesso di guardare ai fiumi e ci siamo concentrati - come mi ricordava qualche giorno fa il buon Maurizio Padovan del Centro Toniolo - solo sulle strade, sul cemento e sugli impianti produttivi. Sul potere dei "schei".

I pochi che continuano a fregarsene appena un po' della natura sono i vogatori, i cacciatori, i pescatori e qualche altro che si può contare sulle dita di una mano.


La chiesa di Roncajette è stata risparmiata per via di uno strano gioco di pendenze.


Pesavo 140 chili. E non mi pesava. Perché del mio corpo non me ne fregava assolutamente nulla. Non ero io quel corpaccione impacciato, puzzolente e invadente. Non mi radevo, non mi pettinavo. Facevo schifo al mondo e mi facevo schifo io. Semplicemente non ci badavo, e vivevo in un mondo ideale, pulsante di immagini e sogni astratti, sempre più alienato da me. Non che adesso sia un adone, ma in questi anni ho imparato ad entrare in contatto con la mia dimensione più profonda. Ho imparato ad ascoltarmi. Ho capito come controllarmi, e a mangiare fino a che il mio corpo aveva fame, e non fino a quando la mia mente mi chiedeva di sfogarsi col piacere del cibo. Ho capito come curarmi e ho imparato ad andare in giro non come un barbone ma come un piccolo borghese, banale, senza nulla da dire, come tutti.

Il Veneto è uguale. Il Veneto che vedo oggi è lo stesso Andrea del novembre 2010. Si ricorda di essere stato bello. Parla continuamente di radici contadine, di cultura veneta contadina, capace di vivere a stretto contatto con la natura e con i suoi ritmi. Nei suoi sogni il Veneto si vede ancora coi casoni col tetto di paglia, con le vecchiette dai lunghi abiti e dalle cuffie intente a fare il filò, della laguna che si perde a distesa d'occhio, delle montagne purissime ancora non cimitero di milioni di soldati, di città d'arte in cui anche l'ultima delle pietre racconta, cantando in armonia, la sua storia millenaria. E su questi sogni il Veneto investe pure valanghe di soldi, per festival, pubblicità, comunicazione. Per dare un'immagine di sé ormai morta. Il Veneto, segretamente, sa di fare schifo oggi, e vive di ricordi. Perché nei suoi ricordi non solo è bello, è meraviglioso, una terra baciata da Dio in ogni modo con cui Dio può baciare un lembo di terra tra il Po e le Alpi.

Il livello dell'acqua. Senza precedenti. O meglio, con precedenti molto molto remoti.

Ma non è più così. Edificato, cementificato, stuprato ovunque in lungo e in largo, la nostra Regione ha smesso semplicemente di guardarsi allo specchio. Il Veneto non affronta di petto quel suo fare schifo. Quel suo avere un sistema cardiocircolatorio - i suoi fiumi - allo sfascio, dopo decenni di incuria, di vizi, di eccessi. E questo non è che il primo della sua lunga lista di problemi.

Certe opere post-alluvione mi sembrano le cure post-infarto di certi malati che si illudono che una cardioaspirina e qualche piccola operazione possano risolvere tutto. Ma come tutti i post-infartuati, il Veneto deve cambiare regime. Completamente. Deve finalmente tirare la tendina dallo specchio e deve osare guardarsi allo specchio, per accorgersi, finalmente, senza filtri, che fa schifo. Ma, tra le cicatrici degli abusi e le rughe dello sfacelo, il Veneto deve accorgersi di quanto è ancora bello. Di quanto può essere davvero la Regione più bella e più sana del nostro già immensamente bello Bel Paese, se solo smettesse di fumare, di drogarsi e di farsi del male da solo.

Auguri caro Veneto.

Se ce l'ho fatta io, puoi farcela anche tu!

venerdì 1 novembre 2013

Elogio di Jessica Fletcher

Non gli pareva vero.

Le budella di Tommaso Pepi, quando si è trovato di fronte su Google +  al post chilometrico in cui demolivo la signora del West etichettandola come liberal chic frantuma-gonadi, sono ribollite peggio dei cotechini precotti da 8 euro. E lo hanno costretto a prorompere con una pia richiesta:



"Faremo". Così ho scritto, trainato dall'entusiasmo, quando mi sono accorto che qualcuno mi aveva fatto il più uno su Google +. E me ne sono accorto solo quattro giorni dopo dato che su Google + c'è meno gente che alle repliche dei film neorealisti nei polverosi cinema d'essai di città.

"Faremo".

No, caro Tommaso. Riprendo le redini di me stesso. Non lo farò.

Se ti aspetti un articolo umoristico, pieno di battutacce sul fatto che Jessica Fletcher abbia fatto più vittime del vaiolo e dell'ebola messe insieme, resterai deluso.
Se desideri che spernacchi la rustica Cabot Cove, cittadina del Maine sull'Atlantico filmata però sulle sponde del Pacifico dall'altra parte dell'America, probabilmente dovresti leggere qualcos'altro.
Se sei in attesa di insulti allo sceriffo papà di Richie Cunningham, al medico che fa più autopsie di vaccini anti-influenzali, mi secca doverti dare questo dispiacere.

Jessica Fletcher è l'unica che è riuscita a mandare al gabbio pure Magnum P.I.

Farò qualcosa di estremamente controcorrente per la cultura internettiana media, e per una volta, andrò incontro alle vecchiette e alle signore di ogni età che ormai conoscono a memoria gli episodi battuta per battuta come le reghezzine snocciolano i testi delle canzoni di Giustino Biberon.

Amo Jessica Fletcher. La adoro.

E no, non sto parlando in generale del telefilm, ma proprio della donna Jessica Fletcher, in gioventù capace di scacciare, da sola, a bordo di una scopa volante, l'avanzata dei nazisti in Inghilterra.


La vera ragione della sconfitta di Hitler.

Primo punto: non è vero che Jessica Fletcher porti sfiga. Sì, nel telefilm avvengono omicidi a nastro, la piccola Cabot Cove è praticamente stata decimata da mogli gelose, colleghi invidiosi, genitori addolorati in cerca di vendetta.

Ma quello che noi profani leggiamo come un affresco quattrocentesco di stampo siciliano "Il Trionfo della Sfiga" per Jessica è il trionfo dell'ingegno. La gente a Cabot Cove si squarta solo perché nel mare di sangue e budella il vascello della Fletcher veleggi verso nuovi orizzonti di gloria.

Particolare de "Il Trionfo della Sfiga". Lo trovate al Palazzo Abatellis, a Palermo.

E' comunque nell'ordine naturale delle cose che alcuni, in particolare donne, vadano pazzi per le disgrazie. E dunque costoro non possono non vedere in Jessica un'eroina, capace di catalizzare i peggio cataclismi su di sé. Ma la compunta signora Fletcher sovrasta queste logiche terrene da voyeurismo del dolore.

A differenza della sua collega di palinsesto Michaela Quinn, Jessica Fletcher non giudica, non critica, non rompe le balle, sebbene sia molto più tradizionalista e "british". Anzi, è proprio quel suo essere "british", quel fare controllato e cortese che rende Jessica avanti anni luce rispetto a tante macchiette femminili del piccolo schermo.

Jessica, quando capita sulla scena del delitto, cioè sei volte alla settimana, riconosce l'autorità precostituita e l'affianca con gentilezza e comprensione. E le forze dell'ordine di ogni angolo d'America e del mondo non solo lo capiscono, ma si sentono pure onorati di poter lavorare assieme a un tale mostro sacro, perché Jessica ostenta la sua superiorità mentale e morale con i fatti, mentre con le parole sottolinea umiltà. E il poliziotto o lo sbirro di turno che non lo capisce, e la ostacola, se ne avrà puntualmente a pentire alla fine dell'episodio.

La felicità per Jessica.

Tutti vorremmo una zia come Jessica Fletcher, se i suoi nipoti e parenti d'ogni ordine e grado non venissero di volta in volta accusati di stupri, omicidi e stragi e non venissero coinvolti nei più orrendi delitti perpetrabili in natura.

Adoro Jessica Fletcher perché percorreva le più tristi pagine della cronaca nera con la sua permanente bionda, le sue chiacchiere di paese, i consigli su come tirare su i fioretti del giardino, se sul tè fosse meglio il latte o il limone e la sua inconfondibile risata finale che preannunciava, argentina, la musichetta di fine episodio.

C'aveva la faccia da vecchia pure da giovane. Qui nel "Ritratto di Dorian Gray".

Ecchissenefrega se nel corso della puntata erano in morti in tredici, fatti a pezzi con un machete e sciolti nell'acido da un folle squilibrato, perché il lieto fine, che ci trainava al TG1 delle 13.30, disegnava con colori pastello la vittoria della gentilezza di una solare vedovella inglese sulle voragini del male umano.