domenica 20 settembre 2015

Ferite


Per stare male non ho bisogno di vedere i filmati degli “scherzi” con cui qualche bullo ha ucciso – moralmente e materialmente – Andrea Natali, il giovane che si è tolto la vita a 26 anni impiccandosi in camera sua.
Mi basta questa foto. Il dolore della mamma, col volto composto della casalinga che l’ha cresciuto preparandogli da mangiare e rimboccandogli le coperte da piccolo. Il dolore del papà, questo artigiano che si domanda, tenendo con la mano grossa grossa come una reliquia sacra l’immagine del figlio, se le cose sarebbero potute andare diversamente. Se solo Andrea avesse incontrato altre persone lungo il suo cammino.
Questa foto mi angoscia terribilmente perché in questa mamma e in questo papà mi pare di rivedere i miei genitori. Per certi aspetti ci assomigliano anche un po’.
E provo a immaginare se oggi, invece che su “La Stampa”, questa foto fosse stata pubblicata sul “Mattino”. Ma con i miei genitori. E con una mia foto tra le mani.
Questa immagine, e la notizia che l’accompagna, mi fa ricordare come anch’io, alle medie, sia stato vittima di bullismo. “Lo siamo stati tutti”, penserete. Forse è vero. E ripensandoci si è trattato probabilmente di poca roba da pesare nella bilancia che è la vita. Anche io ero “particolare”, un tipo un po’ intrattabile, in quegli anni di benessere economico che ricordiamo come la fine anni ’90.
Ma quando il bulletto ti chiama ripetutamente “merda umana” e nessuno della tua classe dice nulla per difenderti, quando i professori osservano le ritualità del branco senza proferire parola, annoiati e stanchi, quando in tre anni sei l’unico della classe a beccarti una sospensione perché al termine di una mattinata di continue prese in giro batti il piede per terra e il bulletto fa finta di essere stato colpito… E tante, tante altre situazioni… Una cicatrice ti resta. Anche quando puoi rimani in “buoni” rapporti con quelle stesse persone. Perché poi si cresce e si mette la testa a posto.
Ma intanto, quando hai 13 anni, pensi che sei tu quello sbagliato. Totalmente sbagliato. Che è meglio stare da soli per evitare grane. Che tanto la tua presenza è inutile e che sono loro, i “bulletti”, quelli che hanno capito tutto della vita. E allora ti isoli davvero. E resti solo. Coltivi il tuo microcosmo. E quando arrivano gli amici, quelli veri, e ormai hai oltre vent’anni, le cose iniziamo a sistemarsi. Ma sai di esserti perso molto nel frattempo, a partire dai compagni di classe delle superiori dei quali non hai mai coltivato amicizie davvero profonde perché ancora troppo “scottato” dai coetanei delle medie. Sai che quelle cicatrici – forse non le uniche – resteranno. E condizioneranno ancora a lungo quello che sei. Anche se in sostanza quello che è capitato a te è un centesimo di quello che è capitato, in età adulta, al povero Andrea di Vercelli.
Se scrivo queste righe non è per denunciare ingiustizie ormai cadute in prescrizione, né per chiedere a chi fa il nobile lavoro di professore, o veglia sui luoghi di lavoro o nei più disparati contesti sociali, dagli allenatori agli animatori, di impedire che certi “scherzetti” innocenti si tramutino – come al loro solito – in ferite che non guariscono più. Specie ora che ci sono gli smartphone.
È che questa foto, in questa mezzanotte di venerdì sera, mi fa un male cane e non so spiegarmi il perché. Ma forse è perché rappresenta l’impotenza di chi ti vuole bene di fronte a un mondo che non vede l’ora di sbranarti, senza un valido motivo, per giunta.

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