lunedì 18 agosto 2014

Santiago - storia di un'esperienza senza logica ma non senza senso



Il cammino di Santiago è una boiata pazzesca.
Sul serio. Ve lo dice uno che l'ha fatto due volte. Gli ultimi centoquindici chilometri, almeno.
La prima volta nel 2004. Caldo secco sahariano, dolore a un polpaccio, overdose di antidolorifici e sguardi colmi di disapprovazione da parte della gente, futuro sindaco compreso, che mi hanno costretto a rinunciare ad alcune tappe, percorrendole in pullman come l'ultimo dei vigliacchi.
La seconda volta pochi giorni fa, a dieci anni esatti di distanza. Nonostante una pletora di vesciche in luoghi del piede che non pensavo neppure di avere ho portato a termine la missione, guadagnandoci - seppur per poche frazioni di secondo - qualche grammo di autostima.
Il cammino di Santiago resta comunque una boiata pazzesca.
Innanzitutto la location: Galizia. Una terra dimenticata da Dio, fatta di collinette secche come i biscotti per i diabetici, in cui tra saliscendi e borghetti tristi e uggiosi si alternano per tutto l'anno due condizioni climatiche: il sole secco e bastardo e la pioggia da monsone vietnamita. L'architettura locale è ferma al 1100: e non parliamo di castelli imperiosi, ma di pezzacci di malta e mattoni tirati su, quasi per dispetto, come in una parodia del romanico.
Ci sono poi ovviamente i fattori soggettivi: per un norvegese o un uzbeko Santiago può rappresentare il massimo della vita. Ma per un italiano, per giunta un padovano come me, è come andarsi a vedere una partita di serie D dopo aver visto la finale di Champions. San Giacomo è un santo rispettabile, eppure, nessuna persona sana di mente si farebbe 800 chilometri a piedi (per i pigri come me 115) per raggiungere la sua tomba, quando in cinque minuti di bicicletta raggiungo senza una goccia di sudore San Luca Evangelista, sant'Antonio di Padova, san Gregorio Barbarigo e qualche altro centinaio di ossa di gente che ora si gusta il paradiso nel settore extra-lusso.
Solo una settimana prima di Santiago ero con le bestie che chiamo giovanissimi a Roma. Lì il confronto - sia per l'arte, che per l'architettura, che per il quantitativo di sacre ossa martiri ivi depositate - diventa davvero imbarazzante.
E poi, diciamocelo chiaramente, la formula del pellegrinaggio a piedi. Andava benissimo quando l'unico mezzo di locomozione a disposizione dell'uomo medio erano i piedi, in tempi in cui il bollo per il cavallo o per l'asino costavano un occhio della testa. Ora è terribilmente agée. Un po' come se un soldato americano decidesse di andare ad ammazzare la gente in giro per il mondo non con i droni futuristici o gli M16, ma con uno schioppetto ad avancarica della guerra d'Indipendenza o con uno spadone inglese del 1200. Farsi 3000 chilometri in pullman per poi scendere e completare gli ultimi cento a piedi rasenta la follia, sinceramente. E' come se presentassi in redazione un articolo battuto con la macchina da scrivere, quella macchina che utilizzavo da bambino ma che ora invecchia in garage assieme all'enciclopedia "I Quindici" e alla bandiera celebrativa della Coppa dei Campioni del Milan del 1989.

Non c'è assolutamente alcun motivo al mondo per cui una persona sana di mente dovrebbe sacrificare le ferie e più di mezza millata di euro per fare il cammino di Santiago.

E' una lunga marcia di morte e di sofferenza per raggiungere una meta che non conosci e non sai perché vuoi raggiungere. All'inizio le cose ti sembrano facili. Poi le prime vesciche ti ricordano la miseria dei due puzzolenti strumenti con cui ti trasporti lungo la terra. Poi cedono i muscoli. Dopo alcuni giorni solo il dolore e la testardaggine ti tengono in vita e ti fanno camminare.

Quella testardaggine che ti fa vedere bella una fattoria della Galizia cento volte più triste della più triste delle nostre fattorie venete. Che ti fa trovare un senso e una poesia di fronte ai campi secchi e aridi. Che ti fa parlare per ore con una persona con cui mai, in condizioni normali, scambieresti una parola. Sia essa parte del tuo pullman, sia essa una tardona americana scema come una mela bacata, un giovane coreano che ti irride per l'arbitro Moreno a dodici anni di distanza o gente simpatica da Vicenza o da Udine. E allora il romanico ti pare persino bello. Perché quella durezza di quella pietra grezza, violenta, a tratti triste delle chiesette di campagna pare messa lì da secoli - e in effetti lo è - e pare durerà per sempre - e durerà davvero ti sembra delicata come un mosaico di Aquileia. Così quel tempietto isolato, dove un prete di 120 anni ti timbra con stanchezza la credenziale, quel triste passaporto da pellegrino macchiato d'inchiostro, sembra pulita come santa Giustina o ricca come sant'Antonio. Anche se le statue di terracotta paiono rubate da qualche giardino kitch e per terra, tra la polvere, si notano perfettamente le piste tracciate dai topi durante i loro gran premi.

Il dolore diventa amore. Un mantra che ti ripeti tipo Rocky mentre viene devastato dalle teghe di Apollo Creed. Quel corpo che annulli durante un anno di sbattacchiate feroci nonstop alla tastiera reclama la sua esistenza. Ti dice che ti può aiutare a portare a termine questa follia iniziata dalla testa, mentre il cuore ci mette il suo e butta tutto il suo carburante. Anche quello che pensavi di non avere mai avuto.

Ti scombussola i piani, Santiago. Parti solo con i cerotti per le vesciche sui talloni, quelle che hai sempre avuto, e le uniche - ripeto, le uniche - vesciche che non ti vengono fuori sono quelle ai talloni. Porti il materassino che pesa ma non ti serve. Pensi di alimentarti in un modo e invece devi modificare totalmente tutto, perché tra la teoria dei blog e delle guide e la pratica tua personale c'è un mondo di mezzo.

Il tempo bastardo fa i suoi giochi ma tu te ne freghi. E i chilometri, incisi sui segnastrada si susseguono incuranti lungo le viuzze. Le frecce gialle ti aiutano a spegnere il cervello, o quel che ne resta. Mentre i rantoli di fatica, gli sputacchi di stanchezza e le esalazioni di fiato tipo novantenne con l'enfisema diventano preghiera. Una preghiera rozza e sincera che dicono che da quelle parti funziona.

E così, dopo albergue spartani, bocadillos da quintale tanto sgraziati quanto buoni, colture batteriche che crescono gialle e rigogliose tra i cerotti e le vesciche, arrivi a Santiago. Ti aspetta quella cattedralona brutta fatta nel pieno del medioevo. La messa è animata da bambini stonati che sembra cantino male apposta come concorrenti di Corrado. Della messa in spagnolo capisci solo il Vangelo. Eppure sei arrivato. L'indulgenza su pergamena pesa in mano come una laurea. Non provi tante emozioni, se non il sapere di esserci. Di avercela fatta. E allora, tra stonature, oscillazioni del mega turibolo da venti tonnellate e gente disperata che si aggira come zombie dopo un mese e oltre di cammino - a differenza tua che ti sei fatto solo cinque giorni - inizi a parlare con Giacomo. Uno dei primi apostoli. Il primo a farsi ammazzare.

"Come stai?" Gli domandi. Hai poco da chiedergli. Del resto, non è stato un fenomeno sparamiracoli come Padre Pio, un sognatore come San Francesco, un dotto "cristoforo" come l'immigrato portoghese Antonio. Ma un apostolo anonimo che è morto subito. Sei vistosamente in imbarazzo. Ma lui ti risponde comunque. E' abituato alla gente come te. Ne ha visti a migliaia in più di un millennio. Ti parla. E ti fa capire che se è lì, se la gente l'ha voluto lì, così importante, così luminoso da dedicarci un'intera città è perché era così vicino a Gesù. Non ci sono tanti altri motivi.

E allora capisci che tutti i tuoi chilometri, le tue vesciche, i tuoi malfunzionamenti atavici che restano e ti accompagnano - e ti accompagneranno - lungo tutto il cammino, non erano rivolti verso san Giacomo, anonimo apostolo che compare più che altro per uno scaboroso tentativo di raccomandazione ante litteram. Ma verso il suo Capo. San Giacomo ti spiega che in fondo in fondo, tutta la nostra vita è un cammino verso di Lui. Il bello è che camminiamo verso di Lui anche quando non lo sappiamo. Anche quando, testardamente, pensiamo di fare la strada opposta per evitarlo. Ma Lui c'è, anche quando l'aridità, il silenzio, la freddezza arrivano a un punto tale che non ti fanno nemmeno più paura, qualche segno te lo dà comunque. Almeno per farti camminare fino a quando le luci non si rischiareranno di nuovo.

Un altro strappo di pullman e sei a Finis Terre. La fine del mondo, l'ultimo baluardo di dominio dell'uomo prima dell'Atlantico. Il gioco delle altezze, della prospettiva, l'odore impetuoso del mare rendono ancora più impetuoso e gigante l'Oceano. E ti spaventa come un titano della mitologia classica. La leggenda vuole che i medievali pensassero che oltre quell'orizzonte le navi sarebbero cadute nel vuoto: sai che è un falso storico, mentre i redneck americani della Flat Earth Society ne sono davvero convinti, ad oggi, 2014.

Ma poi il Sole - quello stesso sole che hai visto brillare ad Assisi, a Roma, ma banalmente anche oltre la siepe di casa tua ti scalda e riduce quella paura. E da formichina impaurita torni ad essere il centro della scena. Il centro dell'Universo. Anche solo per un istante. E capisci perché l'idiota di Di Caprio, di fronte all'Oceano, gridava di essere il "Re del Mondo". Che pezzente. Lui non se l'era conquistato camminando 115 chilometri. Non sa che cosa significa conquistarselo. E il bello che è non sei da solo. Anzi, non sei mai stato da solo, nonostante tutti gli sforzi consci ed inconsci per restarlo.

Al di là di tutto il cammino Santiago resta una boiata. Illogica, una faccenda da ridere. Come è illogico donarsi agli altri. Come è illogico sacrificare anni della propria vita per andare all'estero e magari morire di Ebola. Come è da imbecilli comportarsi onestamente e anzi farsi in quattro per il volontariato in una società di iene feroci. Come è illogico mantenere la parola data, scottarsi, anzi, ustionarsi perché di gioco se ne conosce solo uno, mentre il doppiogioco e il triplogioco per te sono solo traduzioni italiane di manovre difensive del giuoco del baseball. Come - diciamoci la verità - è illogico salvare il mondo morendo in croce. Ed è questa irrazionalità che ci ha salvato tutti, una domenica mattina di duemila anni fa. E' questa irrazionalità che fa ancora andare avanti il mondo.

L'importante è capirlo. L'irrazionalità non è mancanza di senso. Ma la presenza di un senso diverso rispetto a quello che dai per scontato, sicuro, in cassaforte. Rispetto ai tuoi piani. Persino della definizione che hai di te stesso.

E forse proprio i 115 chilometri più inutili della mia vita si riveleranno i più importanti.
O forse no, forse tutto resterà come prima, ma è bello pensarla così.