mercoledì 26 agosto 2015

Il capo dei profughi



Risalire il fiume Karatal. Lasciarsi finalmente alle spalle i campi profughi del Kazakistan, dove milioni di europei respiravano la gomma bruciata dei copertoni delle auto e si congelavano di notte nella tundra come le piantine, solo che loro, la mattina, non si risvegliavano più. Era questa prospettiva, per quanto irrealizzabile, l’unica cosa che li teneva ancora in vita.

Per la quarta volta in un mese il tenente Cheng aveva accettato di vedere il “vecchio”, il carismatico capo dei disperati che con il suo fare suadente rappresentava in tutto per tutto il campo profughi di Karatal. Alto, sproporzionato e dal fare perennemente marziale Cheng aveva passato gli anni ’20 a ripulire la Corea del Sud dai ribelli e per questo era stato premiato dalla Repubblica Popolare con un incarico ben remunerato e di poco conto prima della meritata pensione. Ma il tenente non si era posato sugli allori, anzi. Sebbene avesse a che fare ormai solo con qualche migliaio di profughi anziani e malati, dimostrava un attaccamento se possibile ancora maggiore alla bandiera e alle regole.

Bambini non ce n’erano più. Le radiazioni avevano ucciso metà delle donne in età fertile e aveva reso sterili tutte le altre. I pochi bimbi bianchi al mondo dormivano sicuri tra l’America e l’Australia.

«Che vuoi ancora?». Cheng squadrò il vecchio con disprezzo. Alla prima convocazione, Cheng si era subito presentato nella sua tenda per evitare che le teste più calde facessero qualcosa di cui si sarebbero pentiti. Dagli anni in Corea aveva imparato che è meglio spegnere i fuochi appena si accendono piuttosto che usare le pallottole.

«Che voglio ancora?», trasalì il vecchio. «Voglio ciò che è giusto. Per tutti noi. Siamo vecchi, siamo stanchi. È sette anni che moriamo qui dentro, non ce riusciremo a passare incolumi un altro inverno. Siamo arrivati in ottantamila, ormai siamo poco più di trentamila».

«Sai che non si può». Cheng rimase in piedi, all’entrata della yurta, come a ribadire che la sua presenza sarebbe durata solo pochi minuti. «Ti ho già detto che il mese prossimo arriverà il carbone».
«Il carbone?». Il vecchio rise, mentre con la mano si arricciava la lunga barba. Una risata che era anche un pianto. «Il carbone. Lo sai che il primo inverno sono morti ventimila di noi per il carbone. I fumi delle stufe hanno mandato al Creatore praticamente tutti i francesi. Coi polmoni che si ritrovavano dopo la merda che hanno respirato nel ’19 c’era da aspettarselo. Anzi, lo sapevate. La realtà è che ci volete tutti morti e non avendo le palle per farci fuori aspettate che sia la natura a farlo».

Cheng rimase impossibile. Era come se non avesse sentito. Sapeva benissimo che il vecchio gli avrebbe ripetuto per l’ennesima volta il suo bignamino di storia recente europea, aggiungendo sempre più particolari. Ma era inutile.

«Non so dov’eri tu nel giugno del ’18. Ma io me lo ricordo. Le bombe nelle capitali, le armi chimiche… Una popolazione che non conosceva la guerra da 80 anni praticamente sterminata nel giro di pochi mesi. Roma che bruciava e Londra che affondava nei crateri. Io lo ricordo».

Anche Cheng se lo ricordava benissimo. Nel ’18 aveva venticinque anni ed era tra i soldati adibiti all’accoglienza dei primi profughi spagnoli che arrivavano sulle navi da crociera ad Hong Kong. Nessuno poteva immaginare che quelle fossero le prime avvisaglie della fine dell’Europa. 

«Poi venne il ’19 – il vecchio con la barba e gli occhi castani continuava imperterrito la sua lezione – 150 milioni di morti per le atomiche di Parigi e Marsiglia. Voi non avete mosso un dito. Nessuno è venuto ad aiutarci negli anni successivi. Se non fossimo partiti saremmo tutti morti». Con l’ISIS in pieno controllo dell’Africa, la salvezza si biforcava tra Ovest ed Est. L’Atlantico o gli Urali. Loro avevano scelto gli Urali.

«Siamo ormai solo trentamila. Cosa sono trentamila per due miliardi di cinesi?».
Fu allora che Cheng rispose: «Trentamila europei qui. Ce ne sono 120 mila nel campo a 80 chilometri a sud da voi e altri 70 mila a nord. E di campi ce ne sono a decine. Nel nostro paese voi bianchi siete già 40 milioni, gran parte dei quali disoccupati o sotto occupati. E ci dobbiamo già prendere cura di chi si ammala e muore. Credimi, siete già in tanti. I miei compatrioti non ne possono più. Alle ultime elezioni sono stati chiarissimi».

Il vecchio sospirò. Ormai era la guida di quello strano gregge da quasi dieci anni. Gli italiani ai tempi dei campi in Uzbekistan lo avevano scelto come loro leader. I tedeschi prima e i francesi poi avevano confermato la fiducia in lui, quest’affascinante oratore che a furia di proteste, lotte e minacce aveva sempre garantito che tutti avessero un pezzo di pane e un tronco di legno da bruciare. Ma adesso era vecchio e stanco, e la sua mente ormai logorata dagli anni lo portava a battere senza successo le nocche rugose sulle pareti della stessa inamovibile porta.

«Ti prego Cheng. Portaci almeno a sud, non supereremo l’inverno». Il tenente lo squadrò ancora. E fu allora che una crepa andò a scalfire di qualche millimetro la sua granitica fedeltà ai piani di Pechino. A quello che sarebbe dovuto succedere.

«L’anno prossimo». Si lasciò sfuggire.

«L’anno prossimo?». Urlò il vecchio. «L’anno prossimo? Sai quanti saremo l’anno prossimo? Se ci va bene – ripeto, se ci va bene, se non ci sarà alcuna epidemia resteremo in meno di ventimila». D’un tratto il vecchio leader dei profughi del campo di Karatal alzò gli occhi. «È quello che volete – parlava calmo, rassegnato, disgustato ma sereno – è quello che avete sempre voluto».

Cheng si voltò verso l’esterno della Yurta. Davanti alla porticina di un prefabbricato cadente un uomo di circa trent’anni si scaldava di fronte al fuocherello di un barile. Era biondo, ma la fuliggine che usciva dal rogo aveva già ricoperto i suoi capelli di cenere. Pareva non gli importasse più di niente. Tremava. Da tempo Cheng si domandava cosa ne sarebbe stato di lui se quei quattro folli vestiti di nero avessero fatto scoppiare le loro bombe a Pechino o Shangai, avvelenando l’aria e rendendo la vita impossibile per tre millenni anche nel paesello dov’era nato nel 1993. Forse sarebbe stato lui, in quell’istante, a chiedere pietà di fronte all’autorità militare e di fronte a un’opinione pubblica straniera. Sarebbe stato lui il leader sindacale dei morti che camminano. Ma non poteva fare altrimenti. Di fronte aveva la Storia. Lui era solo una pedina. Erano tutti una pedina. Guardò il vecchio, per la prima volta, in sette anni, come un essere umano e non come un rompicoglioni straniero.

«Mi dispiace Matteo». E se ne andò, scortato, verso la sua auto. La radio era accesa. Tra le notizie, il primo ministro, intervenuto per un discorso alla città di Nyangan, urlava di fronte a una folla festante che non ci sarebbero stati nuovi ingressi e che tutte le politiche per l’occupazione sarebbero state rivolte esclusivamente «ai cinesi di almeno due generazioni».

“Vox populi, vox Dei”, si autoassolse Cheng, mentre l’auto d’ordinanza sfrecciava nella desolata tundra kazaka che odorava di morte.

martedì 25 agosto 2015

Caro bimbo del 1992 (dopo una settimana in Sicilia)

Quando sei un bambino tra i sei e i sette anni la tua mente è una spugna. Ogni cosa che vedi, che leggi o che ascolti resterà impressa per sempre nella tua testolina esattamente nel modo con il quale ti è stata presentata. Non importa se ti dimenticherai il giorno o la circostanza di ogni nuova scoperta, ma le associazioni che farai resteranno sempre.

Il Milan del quale tuo papà ti compra sempre i poster nella vana speranza di vederti un giorno milanista sarà sempre la squadra di quel nero coi capelli ricci e col faccione simpatico, la moltiplicazione è quell’operazione matematica che imita – come ti ha insegnato la maestra Anna Andolina – Gesù con i suoi pani ed i suoi pesci, le tartarughe, anche quelle piccole che puzzano, sono tutte potenzialmente dei guerrieri ninja con i nomi degli artisti rinascimentali. Anche quando hai quasi 30 anni, sei juventino e la matematica ti serve solo per calcolare l’Irpef  una piccola parte di te è ancora in prima elementare. In fondo in fondo, resti sempre un bambino del 1992.

Caro bambino del 1992... è a te che scrivo dopo questi sette giorni in Sicilia.

Ma per te la Sicilia non è la meta del campo diocesano di Ac a cui hai voluto partecipare, ma è ancora quell’isola assolata di cui parlano tanto in televisione. È ancora quella terra bruciata dal sole dove si spara sempre e dove le bombe fanno esplodere signori con i baffi. Con gli anni, caro bimbo del 1992, assocerai alla Sicilia tante altre cose: Franco e Ciccio, Nibali, Mattarella. Ma non c’è bambino del 1992 nel cui immaginario non rimbombi ancora il tritolo di Capaci e quello di via d’Amelio.

Caro bimbo del 1992, ho voluto portarti al Sud, più a Sud di quanto non eri mai stato. Ti ho portato a toccare con mano la pietra arenaria che dà forma alle case popolari e ad assaggiare il ripieno delle arancine. Ti ho messo lì, con i suoi occhiali storti, perché vedessi quanto è stretto lo stretto di Messina e quanto nere sono le ceneri dell’Etna.

Il camposcuola dal titolo “Giovani, Lavoro e Vangelo” ti voleva immergere nel Progetto Policoro, un progetto della Cei per creare lavoro dove spesso si è cercato solo un “posto” per arrivare alla fine del mese. E ti sei sorpreso, caro bambino del 1992, nel vedere come la Sicilia del tritolo, ancora con quel sole che picchiando forte annulla ogni colore, ospiti così tanta ricchezza. Giovani che combattono per la legalità, ragazzi e ragazze che dopo una vita nei patronati con gli scout e l’Azione Cattolica non solo non hanno chiuso in un cassetto tutto quello che hanno imparato, ma lo usano come attrezzo di lavoro per costruire un pezzettino di futuro nel loro territorio. Imprese turistiche, campetti di calcetto, parchi avventura, copisterie, alimentari, cooperative sociali, negozi di fumetti che hanno come business plan quel libretto scritto 2000 anni fa e che ha cambiato il mondo. L’energia e la vitalità che hai respirato ti saranno utili, caro bimbo del 1992, nei prossimi mesi, per quelle due o tre ideuzze che ti girano in testa.

Ora che sei tornato a casa, caro bimbo del 1992, forse ti sentirai un po’ vecchio se messo a confronto con i tanti bimbi del 1999 e persino del 2002 con cui hai condiviso questa frazione di cammino. E forse ti chiederai – sulla scia del tema del campo che hai appena vissuto – se non sia il caso di “contemplare” un po’ di più anche il frutto di tanto tuo lavoro, che non si limita più ai temi in stampatello sui dinosauri, ma che è fatto di campagne adwords, articoli di giornale e trasmissioni radiofoniche: insomma, le porcherie degli adulti ai tempi delle reti digitali. E forse – addirittura – ti chiederai se per inerzia o accidia non hai davvero in questi giorni detto quei “grazie” che il cuore avrebbe voluto dire, troppo impegnato a cercare perfezioni ultraterrene.

Caro bambino del 1992, prima di lasciarti andare a nanna, vorrei convincerti dall’alto dei miei quasi 30 anni che il mondo è davvero un posto magnifico, che i sogni si possono realizzare, che dove scoppiavano le bombe ora crescono i limoni e i bambini come te possono mangiare tutti i cannoli che vogliono. Sarà la stanchezza, sarà il lungo viaggio, eppure, caro bambino del 1992, sai che ti dico? Forse mi sto convincendo un po’ pure io.