lunedì 28 dicembre 2015

"Intorno al Ring" - una non recensione


Ho divorato in questi due giorni “Intorno al Ring”, un dono che Babbo Natale che risponde al nome di mio fratello mi ha fatto a corredo della t-shirt originale di Daniel Bryan. “Intorno al Ring” è un’inusuale quanto scorrevole autobiografia wrestlingara di Michele Posa e Luca Franchini, le “voci” ufficiale del wrestling in Italia.
Mi aspettavo di conoscere più da vicino i due “ex-ciccioni” che da più di dieci anni rappresentano la mia disciplina preferita. E invece tra le righe, tra le note a margine, c’era scritto anche di me.
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Era il mese di settembre 1999.
Per l’anagrafe avrei compiuto 14 anni solo il mese successivo, eppure la mia vita era già cambiata completamente. Addio scuola media del paese, addio ai compagni di classe conosciuti all’asilo. Ora giocavo la mia partita tra i banchi del liceo più prestigioso di Padova, dove avevano studiato Elisabetta Gardini e Giorgio Napolitano, il pilota Patrese e i rampolli dell’alta borghesia patavina. Il timore di non essere all’altezza delle declinazioni del greco ma ancor di più di essere considerato alla pari con i figli di notai e industriali, mi avevano spinto ancor di più a rifugiarmi nel mondo magico del teleschermo, tra reality incipienti, supersayan e majokko varie.
Fu in quel mese che il sabato pomeriggio, dopo Card Captor Sakura e le nuove puntate di Holly e Benji – con Shingo Aoi che tentava la fortuna all’Inter grazie al falso passaporto di Recoba – arrivò il wrestling.
Ero troppo piccolo – o troppo poco nottambulo – per ricordare le grandi sfide dell’era gimmick commentate da Dan Peterson. Nei mesi precedenti avevo scorto qualcosa di Raw dalle immagini criptate in stile Tele + del canale per i militari americani. Impazzivo per Celebrity Death Match, per la lotta olimpica, per le “botte”, come tutti i 13enni sani di mente.
Ma ricordo distintamente l’impatto quasi stendhaliano di fronte alla WCW del 1999. Adoravo il mid-card dei pesi cruiser, i loro voli, Rey Mysterio senza maschera, la grazia di Eddie e Chavo Guerrero, la netta distinzione tra bene e male in Juventud Guerrera, La Parka e Psychosis. E poi i colossi: il carisma di Sting, la devastazione di Goldberg, la specchiata bontà di Kevin Nash (erano mesi da face per lui), il quoziente intellettivo di Sid Vicious.
Potrei stare qui ore a dire quanto sia legato a quel wrestling (che in realtà ho visto davvero poco, specie se paragonato alle centinaia di ore di WWE fagocitate nei 15 anni successivi), quanto abbia padroneggiato WCW Mayhem alla Playstation 1, quanto alla fine i pochi mesi da mark puro fossero belli…
Ma vi annoierei a morte. Il wrestling – come ogni nostro hobby, passione o interesse – non è il wrestling (scusa Max Landis). Ma il nostro rapporto con esso. È ciò che ci è piaciuto e ciò che non ci è piaciuto. Sono le pazzie che abbiamo fatto per esso. Sono le ore passate nei forum o di persona a fantasticare scelte di booking, a creare trame, a saltare sul divano per i bump. È ricordarsi il giorno in cui è morto Eddie Guerrero, o quando quella notte, in diretta su Sky, avevi condiviso con Posa e Franchini la preoccupazione nel vedere presentarsi a Vengeance per il vacante titolo ECW CM Punk al posto di Chris Benoit.
In fondo, è come se il tempo si fosse fermato. Quando scrivo un articolo, convoco una conferenza stampa o posto su Facebook qualcosa a nome di tale ufficio o tale azienda posso dire di avere 30 anni. E posso dire di sentirne tutto il peso.
Ma quando vedo l’ironman match tra Sasha e Bayley, gufo Roman Reigns o prego la Madonna di Czestochowa per assistere a John Cena che turna heel pestando pure i bambini di “Make a Wish”, se mi guardo allo specchio ho di nuovo 13 anni. Sul tavolo ci sono ancora le versioni di greco da tradurre e al telegiornale ci si lamenta del governo Amato responsabile del Millennium Bug.
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Posa e Franchini alla fine sono come noi. Sono noi.
Che li amiate o che li odiate, se nell’iperuranio platonico esistesse uno scaffale dedicato alle passioni, “l’amore per il wrestling” avrebbe il faccione di Posa e Franchini, come un Giano bifronte. “Intorno al ring” è una canzone d’amore che il Bardo e il Godzilla intonano nei confronti di questa disciplina così incomprensibile, che mescola le arti marziali alle tragedie di Euripide.
Ma non è uno spettacolo: quello che Posa e Franchini raccontano è uno scenario in cui noi – tutti noi fanatici – abbiamo un ruolo da protagonisti. È come se ci fossimo anche noi quando Fabio Guadagni chiama Kiniluca e il Bardo per realizzare un sogno. Ci siamo anche noi quando i divi prima visti da lontano dopo dieci ore di macchina diretti in Germania ora sono atleti che si mettono in coda per farti intervistare da te. Quando il desiderio di una vita – quello di commentare una Wrestlemania a bordo ring – diventa semplice normalità.
“Intorno al ring” non è un libro di wrestling. È la storia di un sogno che si realizza, una storia che i fan di wrestling non possono non conoscere. Sarà un po’ conoscere sé stessi.

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