venerdì 1 novembre 2013

Elogio di Jessica Fletcher

Non gli pareva vero.

Le budella di Tommaso Pepi, quando si è trovato di fronte su Google +  al post chilometrico in cui demolivo la signora del West etichettandola come liberal chic frantuma-gonadi, sono ribollite peggio dei cotechini precotti da 8 euro. E lo hanno costretto a prorompere con una pia richiesta:



"Faremo". Così ho scritto, trainato dall'entusiasmo, quando mi sono accorto che qualcuno mi aveva fatto il più uno su Google +. E me ne sono accorto solo quattro giorni dopo dato che su Google + c'è meno gente che alle repliche dei film neorealisti nei polverosi cinema d'essai di città.

"Faremo".

No, caro Tommaso. Riprendo le redini di me stesso. Non lo farò.

Se ti aspetti un articolo umoristico, pieno di battutacce sul fatto che Jessica Fletcher abbia fatto più vittime del vaiolo e dell'ebola messe insieme, resterai deluso.
Se desideri che spernacchi la rustica Cabot Cove, cittadina del Maine sull'Atlantico filmata però sulle sponde del Pacifico dall'altra parte dell'America, probabilmente dovresti leggere qualcos'altro.
Se sei in attesa di insulti allo sceriffo papà di Richie Cunningham, al medico che fa più autopsie di vaccini anti-influenzali, mi secca doverti dare questo dispiacere.

Jessica Fletcher è l'unica che è riuscita a mandare al gabbio pure Magnum P.I.

Farò qualcosa di estremamente controcorrente per la cultura internettiana media, e per una volta, andrò incontro alle vecchiette e alle signore di ogni età che ormai conoscono a memoria gli episodi battuta per battuta come le reghezzine snocciolano i testi delle canzoni di Giustino Biberon.

Amo Jessica Fletcher. La adoro.

E no, non sto parlando in generale del telefilm, ma proprio della donna Jessica Fletcher, in gioventù capace di scacciare, da sola, a bordo di una scopa volante, l'avanzata dei nazisti in Inghilterra.


La vera ragione della sconfitta di Hitler.

Primo punto: non è vero che Jessica Fletcher porti sfiga. Sì, nel telefilm avvengono omicidi a nastro, la piccola Cabot Cove è praticamente stata decimata da mogli gelose, colleghi invidiosi, genitori addolorati in cerca di vendetta.

Ma quello che noi profani leggiamo come un affresco quattrocentesco di stampo siciliano "Il Trionfo della Sfiga" per Jessica è il trionfo dell'ingegno. La gente a Cabot Cove si squarta solo perché nel mare di sangue e budella il vascello della Fletcher veleggi verso nuovi orizzonti di gloria.

Particolare de "Il Trionfo della Sfiga". Lo trovate al Palazzo Abatellis, a Palermo.

E' comunque nell'ordine naturale delle cose che alcuni, in particolare donne, vadano pazzi per le disgrazie. E dunque costoro non possono non vedere in Jessica un'eroina, capace di catalizzare i peggio cataclismi su di sé. Ma la compunta signora Fletcher sovrasta queste logiche terrene da voyeurismo del dolore.

A differenza della sua collega di palinsesto Michaela Quinn, Jessica Fletcher non giudica, non critica, non rompe le balle, sebbene sia molto più tradizionalista e "british". Anzi, è proprio quel suo essere "british", quel fare controllato e cortese che rende Jessica avanti anni luce rispetto a tante macchiette femminili del piccolo schermo.

Jessica, quando capita sulla scena del delitto, cioè sei volte alla settimana, riconosce l'autorità precostituita e l'affianca con gentilezza e comprensione. E le forze dell'ordine di ogni angolo d'America e del mondo non solo lo capiscono, ma si sentono pure onorati di poter lavorare assieme a un tale mostro sacro, perché Jessica ostenta la sua superiorità mentale e morale con i fatti, mentre con le parole sottolinea umiltà. E il poliziotto o lo sbirro di turno che non lo capisce, e la ostacola, se ne avrà puntualmente a pentire alla fine dell'episodio.

La felicità per Jessica.

Tutti vorremmo una zia come Jessica Fletcher, se i suoi nipoti e parenti d'ogni ordine e grado non venissero di volta in volta accusati di stupri, omicidi e stragi e non venissero coinvolti nei più orrendi delitti perpetrabili in natura.

Adoro Jessica Fletcher perché percorreva le più tristi pagine della cronaca nera con la sua permanente bionda, le sue chiacchiere di paese, i consigli su come tirare su i fioretti del giardino, se sul tè fosse meglio il latte o il limone e la sua inconfondibile risata finale che preannunciava, argentina, la musichetta di fine episodio.

C'aveva la faccia da vecchia pure da giovane. Qui nel "Ritratto di Dorian Gray".

Ecchissenefrega se nel corso della puntata erano in morti in tredici, fatti a pezzi con un machete e sciolti nell'acido da un folle squilibrato, perché il lieto fine, che ci trainava al TG1 delle 13.30, disegnava con colori pastello la vittoria della gentilezza di una solare vedovella inglese sulle voragini del male umano.


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